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Ad ogni uscita i White Stripes stupiscono e rassicurano allo stesso tempo. Prendono la sacrosanta base del blues e pur mantenendo intatto il profondo legame con le radici, la trattano in modo del tutto personale. Come se Jack White fosse il primo bluesman apparso sulla faccia della terra (ed è uno sporco bianco!!) ma non potesse comunque vivere in tempi differenti da questi.
Dopo le accoglienze alterne del precedente “Get Behind Me Satan”, disco a suo modo stupefacente in cui la voglia di osare (meglio conosciuta come “fare quel che si vuole senza calcoli”, ovvero “fare Musica”) aveva preso il sopravvento, il duo di Detroit decise di infilarsi nel freezer. Godiamoci gli ottimi Raconteurs (di cui a quanto pare sentiremo ancora parlare) e il futuro, se ci sarà, si vedrà. Così dicevamo.
A un certo punto salta fuori la notizia: c’è in giro, qualcuno l’ha sentito, il nuovo singolo dei White Stripes, “Icky Thump”. Lo cerchi, lo metti su e pensi “Jack White è impazzito”. Ci dentro i Led Zeppelin, come spesso accade, ma soprattutto un synth che la fa da padrone e che al primo colpo, visto l’andazzo della canzone, provoca un brivido lungo il collo sussurrando nell’orecchio la parola “progressive”.
Ovviamente il pericolo è scampato e il progressive non c’entra nulla. Ma quel che già dal singolo (nonchè brano di apertura) si è capito a chiare lettere fin dal primo ascolto è il desiderio di stupire, di divertire e divertirsi, e di non mettere freno alla propria testa e al proprio cuore.
Perché questo disco contiene anche “Conquest”, pezzo portato al successo (non per me, io l’ho letto su wikipedia) negli anni 50 da Patti Page, quella che cantava “Quanto costa quel cane in vetrina?”, qui ritrattato in una versione iper-kitsch dallo spirito mariachi, con un perfetto botta e risposta fra tromba e chitarra elettrica. Una specie di capolavoro.
E dopo il rock’n’roll di “Bone Broke” arrivano addirittura le cornamuse: “Prickly Thorn, But Sweetly Worn” e “St.Andrew”, parlata da Meg, sono parte del loro personale viaggio a Bron-Y-Aur, fra chitarre acustiche, battimani e filastrocche d’altri tempi.
Ma non sono solo le eccezioni a valere. Anche il loro tipico blues-rock – semiacustico in “300 M.P.H. Torrential Outpoor Blues”, grezzo in “Catch Hell Blues” e divertito e assolutamente divertente in “Rag And Bone” –, sembra sempre più fresco. Alla faccia del materiale più vecchio del mondo su cui continuano a lavorare. Così fra qualche inevitabile strascico dell’esperienza con i Raconteurs (“You Don’t Know What Love Is” e “A Martyr For My Love For You”) c’è anche l’assoluta potenza di “Little Cream Soda”: un pezzo tremendamente White Stripes ma che con prepotenza entra fra i loro migliori in assoluto.
Ed è pure stupefacente la resa del suono, sempre più piena e convincente, sulla base di tre misere settimane di lavoro in studio.
L’altro giorno stavo guardando su youtube la loro apparizione a quella manna dal cielo che è il “Later With…” di Jools Holland. A un certo punto durante l’intervista…
Jools: “E per fare questo disco quanto ci avete messo?”
Jack: “Molto più del solito, tre settimane”
Jools: “Tre settimane… incredibile.. Kaiser Chiefs, voi quanto ci avete messo a fare l’ultimo disco?”
Tizio dei Kaiser Chiefs: “Un anno”
Ecco. Basta. Io mi fermo qui.