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Ecco Jamie T, il menestrello di Wimbledon, che secondo alcuni è l’erede designato di niente popò di meno che sua maestà operaia Billy Bragg (…), e che secondo altri è la definitiva risposta rockstaeady a The Streets. Non ci limiteremo a dire che tale Jamie T ha dalla sua un’intelligenza musicale enciclopedica in grado di spaziare dal combat-folk al raggae passando per l’hip hop, una voce impastata e biascicante e una faccia pulita immediatamente simpatica. E poco altro.
L’inizio è incoraggiante: “Brand New Bass Guitar” è un folk urbano caracollante e chiacchierato che odora di birra e fumo di sigaretta e ingloba al proprio interno i rumori tipici della variegata fauna dei pub inglesi, tanto che ad aguzzare le orecchie sembra quasi di poter sentire il tintinnio dei boccali vuoti. “Salvador” è un altro pezzo notevole: la macchina ritmica ha una progressione possente, la chitarra disegna graffiti in libertà e il canto salmodia il suo reggae incartato, prima di aprirsi in un ritornello intriso di partecipato dolore e nostalgia. “Calm Down Dearest” arranca lungo sentieri più riconoscibilmente hip pop e qualche perplessità inizia ad affiorare di fronte al tessuto di effetti campionati che sostiene la scansione del pezzo e l’accompagna fino al ritornello mieloso, che non avrebbe per altro sfigurato in un ipotetico disco dei Mattafix (!). La deriva prosegue inesorabile nei battiti intermittenti e sfasati di “So Lonely Was The ballad”, che documenta l’importanza rivestita da gente come Beastie Boys o Cypress Hill nella formazione musicale del giovanotto.
“Back In The Game” si riposiziona in territori folk e la voce totalmente sgrammaticata di Jamie si contorce su sé stesa e storpia le parole in modo così viscerale che sembra quasi che sia l’asfalto delle strade della suburbia londinese a parlare, liberando con foga tutte le storie di cui è impregnato. “Operation” riesce laddove la precedente “Calm Down Dearest” falliva: ska-rap agguerrito, un fitto lavorio di microscenari elettronici che si aggrovigliano sullo sfondo e un collage di rumori più o meno di fortuna che si intrufolano e depositano nella canzone quasi di straforo. “Sheila” perfeziona ulteriormente la formula e si regala un ritornello piacevole anche se un po’ monotono. “Pacemaker” ritorna di nuovo sul luogo del delitto e insiste con l’hip pop e l’unica cosa degna di nota sono le nevrotiche sortite di una chitarra funky di tanto in tanto e qualche piccola sporcatura o abrasione disseminata con noncuranza. “Dry Off Your Cheeks” e “Ike & Tina” si aggirano in zone limitrofe e non hanno molto da offrire in termini sonori così come la conclusiva “Alicia Quays”. A rimettere in discussione tutto (e ad alimentare i rimpianti) giunge allora il singolo ”If You Got The Money” , un capolavoro che da solo varrebbe quasi l’acquisto del disco e si colloca in qual punto esatto in cui, sulla scorta dei Clash sandinisti, reggae caraibico, ska, punk e hip hop si intrecciano in unico aroma tropicale e metropolitano al tempo stesso, in un tripudio di chitarre ancheggianti e rime imperfette che si inanellano una dentro l’altra senza fine. Irresistibile.
Il bilancio finale parla di un disco che potrebbe potenzialmente scontentare tutti: i cultori dell’indie rock britannico per il troppo rap così come i cultori dell’hip pop per le troppe chitarre. Un disco che non trova una identità precisa e vive di contaminazioni continue, risultando alla fine un intricato coacervo di materiali di scarto e appunti e bozzetti raccolti di sfuggita e spesso sfocati. Un disco anche molto noioso in alcuni momenti per il suo essere più da leggere che da ascoltare, vista la sua spiccata vocazione narrativa e le sue troppe, troppe parole.