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Se per Zappa ‘parlare di musica’ era come ‘ballare di architettura’, figuriamoci cosa sarebbe diventata la sua celebre massima di fronte ad una recensione dei Trans Am. In questo caso, più che superflua, l’operazione può facilmente assumere le sembianze di un diabolico mostro di perfida irrisolutezza; di quelli con tre o quattro teste, tanto per intenderci. Eccessivamente pestoni e massimalisti per soddisfare il fine palato dell’intellighenzia (del fu) post-rock, troppo arguti e (beh, sì) sperimentali per ingraziarsi appieno i favori del pubblico meno “consapevole”, i tre adorabili cialtroni di Washington D.C. rappresentano da più di un decennio una bizzarra anomalia nel panorama musicale indipendente, in quel disinvolto ed errabondo percorso artistico che li ha visti lasciarsi alle spalle i brandelli irriconoscibili dei tanti generi musicali masticati e sputacchiati un po’ ovunque per la via.
Quello dei Trans Am è da sempre uno sguardo attento e vigile perso nel vuoto. Scrupoloso disimpegno e brillante vacuità, istintivo cerebralismo e discreta impertinenza: pensiamo a loro ed è subito un affollarsi e un rincorrersi di inevitabili ossimori, tanto siamo abituati a veder sfilare pomposa quella controversa estetica della contaminazione, fatta sì di traiettorie oblique ma al tempo stesso consolidatasi in una formula tutto sommato piuttosto personale e riconoscibile, senza dubbio ad alto contenuto (auto)ironico. Nel sottile discrimine che divide genio e folle irrazionalità – forse è questo il punto – nessuno ha mai capito fino in fondo se i ragazzi di Washington ci sono o ci fanno. Così li troviamo ancora una volta a loro agio nello scivolare dall’armoniosa synth-apertura di “First Words” (dall’andamento molto Neu!’75) alle leggere pulsioni pop-psichedeliche di “North East Rising Sun”, dove il cantato può richiamare alla mente anche certe cose dei compari Oneida (nei cui studi i tre hanno sostato durante gli infiniti spostamenti di lavorazione). E mentre le strategie di Eno si fanno d’un colpo “oscene”, la tirata electro-hard di “Conspiracy of the Gods” funge da antipasto per quelli che saranno i piatti “forti” di chiusura, ai quali giungiamo passando per le solleticanti bollicine vocoderizzate di “Climbing Up the Ladder” e la gustosa melodia-wave in salsa krauta di “4,738 Regrets”. Sono come a casa loro quando, incidentalmente, l’ipnotica “Reprieve” velocizza a 45 giri un pezzo che potrebbe essere degli Air; in piena scioltezza se, rimboccandosi le maniche, gonfiano i muscoli nei due numeri finali (“Shining Path” e “Triangolar Pyramid”) liberando le loro proverbiali schitarrate di esuberante hard rock/metal vanhaleniano, con un ruvido loop-noise che va a sfumare in una tenue e insistita coda lisergica.
Nonostante tutto, quello dei Trans Am rimane un punto di vista assolutamente originale che, dopo le brillanti prove d’esordio e un’ultima fase di relativa stanca creativa (vedi lo zavorrato “Liberation” di tre anni fa), mette a fuoco con questo “Sex Change” un momento di ritrovata gioia e vitalità nell’iter produttivo del terzetto americano. Con qualche eccezione di doverosa menzione (“Red Line” su tutto), quelle dei TA sono per certi versi operazioni discontinue che quasi mai lasciano un segno profondo e deciso, prove spesso irrisolte e zoppicanti, con poca infamia e poca lode. E forse sta anche in questo il segreto del loro fascino, in quella capacità di suscitare reazioni contrastanti sempre in bilico fra amore e odio, euforia e stucchevolezza, eccitazione e senso di nausea. Per dirla tutta, non che ci aspettassimo qualcosa di nuovo o particolarmente sorprendente.
In fondo ci basta ritrovare ogni volta i cazzoni di sempre.
Inclassificabili e inqualificabili. Prescindibili quanto vogliamo. Però chissà che vita sarebbe senza i Trans Am.