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31 AGOSTO
Non è che andando in Scozia ci si aspetti un’ostentazione di quei tratti culturali, nel nostro caso musicali, che l’hanno sempre fatta passare per qualcosa di diverso dalla vicina Inghilterra, ma è difficile ignorare la graduale svolta. Quel grigiore carico di visceralità e malinconia, non solo per l’onda lunga del terremoto Franz Ferdinand, pare soppiantata dal fenomeno musicale che tanto spopola un po’ di miglia più sud, a Londra e non solo, e che non risponde certamente al nome di brit-pop, ma di indie, in tutte le sue salse e diciture. Nella fosca Edimburgo di Trainspotting, dove spopola il validissimo quanto patinato disco-revival anni 80 del giovanissimo Calvin Harris, è un’impresa non imbattersi in un brano degli Arctic Monkeys o dei Kaiser Chiefs in ogni sorta di pub e negozio, persino nei locali rock nell’accezione più classica come l’Opium o il The Hive. Nei tetri scantinati del Cabaret Voltaire ti ritrovi in un’improbabile selection d’n’b-electro-indie e persino nello storico Liquid Room la serata più gettonata e affollata è la Indigo del mercoledì. Niente di diverso nella Glasgow della disillusione e del vuoto esistenziale di Arab Strap e Belle & Sebastian, dove al Mono, punto di riferimento dell’intelligentia musicale locale, ci si imbatte in una dimessa band indie-lofi, al King’s Tut Wah Wah, come al Sub Club, come al Barfly si può scegliere tra esordienti indie-r’n’r e esordienti indie/new new wave, al Garage si sono inventati una pista per l’indie di nicchia, “Indie Bible”, e una pista “Chart Indie” con l’indie da classifica. Ed è molto più difficile ballare sui Simple Minds piuttosto che su nuovi fenomeni nazionali piuttosto discutibili come i Biffy Clyroo i 1990’s. Ironia della sorte sono solo questi ultimi a rappresentare, insieme ai ben più promettenti My Latest Novel, la scena indie scozzese nella prima edizione del festival più scozzese di sempre, in una location che più scozzese non si può: fiabesco castello settecentesco perso nella boscaglia sulle rive di un loch proteso verso l’Oceano, per tre lunghe giornate e tre palchi. Con gli artisti sopra citati e altri must “antichi” – Josef K, Orange Juice, Cocteau Twins – e recenti – Boards Of Canada, Travis – sarebbe presente tutto il meglio della Scozia dell’ultimo ventennio e oltre. Per fare qualche nome scozzese – cui si aggiungono ovviamente altri artisti “stranieri” del calibro dei Big Star e degli Only Ones – Mogwai, Teenage Fanclub, Primal Scream, The Aliens (da due reduci della Beta Band), Sons & Daughters, Idlewild, Trashcan Sinatras Aereogramme e, soprattutto i Jesus & Mary Chain. Ed è da loro che inizia questo che resta un racconto parziale. Ci sarebbero altri gruppi di cui parlare, visti e intravisti, ma si sa, al di là del fango, come sia difficile vedere tutto in occasioni del genere. Impossibile negare l’attesa per l’evento clou del Connect, il ritorno sulla scena, dopo quasi dieci anni di assenza, dei fratelli Reid, che si materializzano nello scenario fantasy dell’impronunciabile località Inveraray, dopo l’anonima esibizione dei CSS (di cui non sentiremmo parlare se non figurassero nella formazione quattro ragazze più o meno appariscenti dal Brasile) e la performance di tutt’altro spessore di Mr.Pulp, l’eccentrico Jarvis Cocker, che, pur evitando ripescaggi dalla band che l’ha lanciato, alterna sprazzi di gran classe con omaggio finale ai The Skids a gag sui delfini rispondendo con un eloquente “Get it off, man” a un highlander rivisitato – questo sì – da Irvine Welsh, che salendo sul collo dello sciagurato socio smonta ogni scetticismo sulla leggenda del kilt senza mutanda di appoggio.
I Jesus & Mary Chain, scozzesi da sempre allergici al kilt, partono in quinta regalando subito la prima agrodolce caramella psichedelica da quello “Psychocandy” che resta uno dei dischi più sconvolgenti degli ultimi decenni, “Never Understand”, non l’unica per altro ( “Sowing Seeds” e “Some Candy Talking”, ma non solo…) La voce di Jim, che pure ha rinunciato al nero nei capelli come nell’abbigliamento, cupa e penetrante come se non fosse passato tanto tempo, la chitarra di William, che non rinuncia al colore tipico della storica formazione di Glasgow, fuori forma pur lontano alla degenerazione del quasi-sosia Robert Smith, graffiante, votata al feedback con i fischi al posto giusto, ovvero dove non dovrebbero esserci. In piena logica shoegaze. Sebbene il compassato ormai ex-maledetto William continui, in piena logica kidgaze a contemplare, piuttosto che le scarpe e gli effetti, il frastornatissimo figlio ai lati del palco che non ha l’età per aver ammirato le gesta padre e zio, intimandogli di tapparsi le orecchie. Perché i volumi sono veramente da Jesus & Mary Chain e l’avvolgente tappeto di chitarre è di rara intensità. Tra i brani più recenti, si fa per dire, della fase 1989-1991 che esaltano l’anima più squisitamente psichedelica, “Head On”, “Teenage Lust” e la spietata “Reverence” di chiusura, si infila l’emozionante “Happy When It Rains”, unica perla da “Darklands”. E magicamente, in uno dei momenti più vibranti di un’ora e passa di spettacolo, l’insistente pioggerellina scozzese si dà una pausa. La spinta trascinante dell’eterogenea platea è da brivido nelle fasi più corali, tra reduci di quella Glasgow e gente che come me, quando uscì “Psychocandy” era meno di un’idea nella testa dei propri genitori o tutt’al più aveva l’età del piccolo Reid. Non possono e non devono mancare la dolente “You Trip Me Up” e il classico per antonomasia, quella “Just Like Honey” riportata in voga da Sofia Coppola in “Lost In Translation”, senza – per fortuna – ospiti controversi come Scarlett Johansson nella prima del tour, al Coachella Festival. Bastano loro. Eccome. Non resta che ringraziare e genuflettersi solennemente. Il festival potrebbe finire già qui. Ma si è solo all’inizio.
Con gli orari delle esibizioni presenti solo sulla guida in vendita al modico prezzo di sette sterline e negata persino agli accreditati, divincolarsi tra gli innumerevoli stand che offrono ogni tipo di pietanza, dalle immancabili specialità vegane al risotto all’italiana servito in tazze come il caffé, senza il minimo sentiero in un fango woodstockiano che sembra ad hoc, trasforma in un’odissea la corsa verso i palchi minori. C’è chi la prende bene nel constatare di aver perso una scarpa negli abissi perché ha salvato la birra, c’è chi la prende meno bene nel constatare di aver perso con l’equilibrio anche la birra nel pantano creatosi ai bordi dell’unico palco provvisto di telone, il “Guitars & Other Machines Stage”. Non c’è neanche il tempo per godersi l’irresistibile dance dalle venature soul e l’approccio inequivocabilmente noise/shoegaze, della ciurma The Go! Team, una delle sorprese inglesi più piacevoli degli ultimi cinque anni. Il capolavoro “Ladyflesh” è già un classico, “Doing It Right” dal nuovo album in uscita può replicarne i fasti. Bisogna subito riavventurarsi nella palude per i Beastie Boys, lo storico collettivo newyorkese troppo rock per piacere agli integralisti hip-hop, troppo hip-hop per piacere agli integralisti rock. O forse no, perché se quel Peter Pan di Mike D ha dalla sua quella voce irriverente con cui lancia strali a destra e manca (persino al Duca di Argyll, antico ospite dell’imponente castello, l’unico, il castello non il duca, che riesce a subire l’impatto supersonico della band con distacco e fermezza “Whose is the fuckin’ castle, duke? It’s Mike’s”), AD Rock e MCA sono dei musicisti tout court che sfuggono alla categoria di rapper, tra chitarre, basso, tastiere, e un check it out e l’altro, da “Body Movin’” a “Brass Monkey”. Esibizione memorabile con tanto di nota di merito al look da eleganti gangster anni cinquanta e agli eccellenti collaboratori.
1 SETTEMBRE
Secondo giorno, solita strada che si inerpica tra passi, colli e laghi per raggiungere la desolata baia del Loch Fyne. Il sole come l’odore del mare – forse grazie alle ostriche che spopolano dando addirittura in nome, Oyster Stage, al palco principale – provano a insinuarsi tra gli imponenti abeti, complici incolpevoli del fango che aumenta a vista d’occhio. I Divine Comedy dell’elegante neodandy dalla vicina Irlanda del Nord, Neil Hannon, sotto la pioggia pomeridiana sono il sottofondo perfetto. Non solo “To Die A Virgin”, “Mother Dear” e “Lady Of A Certain Age” dal nuovo, ottimo album, piccoli classici come “Generation Sex” ma, purtroppo, nessun ripescaggio dal crepuscolare “Regeneration”. Se ieri si doveva sbirciare tra i generosi acquirenti dalle guide di sette sterline per capirci qualcosa su orari e coincidenze tra i palchi, altrettanto generosamente si decide di pubblicare in un piccolo quadro informativo, preso inevitabilmente d’assalto. La tragedia è la contemporaneità tra Echo & The Bunnymen e Primal Scream anche perché il fango, piuttosto che il numero degli spettatori piuttosto adatto agli spazi (come previsto ci sono più birre che spettatori), non consente fughe del secolo. Quella tra Teenage Fanclub e Nathan Fake, e non ultima, tra Modest Mouse e Mogwai, le risolvo a vantaggio dei secondi, non me ne vogliano gli Smiths, non me ne voglia Johnny Marr in pianta stabile nella band di Isaac Brock, non me ne voglia il rispetto per il classic rock scozzese. Nathan Fake, ventitreenne nome nuovo della scena d’oltremanica, suona al coperto, particolare da non sottovalutare se non si è disposti di stivali fashion come buona parte dei presenti. Autore dello splendido “Drowning In A Sea Of Love”, una furba miscela di sonorità elettroniche da Boards Of Canada, guizzi glitch-pop e paesaggi rarefatti tra Air e Radiohead calati nell’ottica shoegaze di un ex dj-house di cui ci offre un assaggio tra un brano e l’altro dell’lp di esordio. E soprattutto c’è una scintillante jam tra afro, trance e techno tra il batterista free-jazz Steve Reid e un’artista cui Nathan e tanti altri devono molto, Kieran Hebden. Se il nome non vi dice nulla pensate al progetto Four Tet, ai suoi incredibili remix (Radiohead, Notwist, Badly Drawn Boy, Super Furry Animals, anche loro nella line-up al festival) e a quel “Rounds” che nel 2003 sconvolse la scena electro con un ineffabile susseguirsi di trame convulse ed eteree. La pioggia si fa più intensa per un’atmosfera di surreale silenzio che accompagnerà l’intera esibizione di un’altra band indigena. Assistere a un concerto dei Mogwai in Scozia in un paesaggio di tale suggestione ha un qualcosa di mistico, soprattutto se all’apertura ideale, il primo brano del primo album, “Young Team”, la sognante “Yes! I Am A Long Way From Home”, segue la scaletta perfetta. Tutti i brani che ci si aspetta dai Mogwai in un’ora e mezzo di esibizione, nella sequenza migliore possibile. C’è la furia luciferina di “Mogwai Fear Satan” e “Glasgow Mega-Snake” (inusuale quanto pirotecnica chiusura che sorge dal tappeto rumoroso che chiude la più usuale chiusura, “We’re No Here”), c’è il romanticismo penetrante di “Helicon pt.1”, la freddezza avvolgente e distaccata di “Friend Of The Night” e “I Know You Are But What Am I”, l’impeto di “Travel Is Dangerous” e “Ratts Of The Capitol” e soprattutto due dei brani più belli mai scritti dal quintetto che meglio ha rappresentato in musica, esprimendosi raramente in versi, la contraddittoria Glasgow a cavallo dei due secoli, “Hunted By A Freak” e “2 Rights Make 1 Wrong”. Non ci sono parole, il resto lo fa la pioggia e il suo lieve e insistente scroscio che accompagna ogni nota. Indimenticabile. Quanto quello che viene dopo, del resto. Un’altra band sempre di Glasgow, ma di tutt’altro mood e stile, i Primal Scream di Bobby Gillespie. Non si dovrebbe scrivere nulla, basterebbe il nome di una di quelle band che andrebbero viste almeno una volta nella vita. Il set ha un’impostazione decisamente rock’n’roll, quanto il pubblico piuttosto movimentato, e sarebbe impossibile chiedere il contrario nonostante il fango che ci mette del suo per rendere ogni movimento goffo e rallentato. Volano bicchieri di birra, uno si infrange, e non è vuoto, sul bassista che poi invita il “codardo” a salire sul palco, Gillespie è in forma smagliante, i brani dell’indifendibile ultimo album, “Riotcityblues”, inspiegabile rigurgito revival rock/blues, funzionano con un micidiale impatto da vera risposta anni 90 ai Rolling Stones. Ma è da cineteca l’infuocata riedizione dei classici meno r’n’r e più sperimentali dell’altra formazione-simbolo di Glasgow. “Accelerator”, che apre lo spettacolo con un assedio supersonico da ko, l’acidità di “Rise” e “Detroit” che fa tremare il castello, la lisergica sinfonia rumorosa di “Shoot Speed Kill Light” che si leva al cielo rievocativa più che mai e l’epilessia di “Kill All Hippies”. Mogwai e Primal Scream, la prova che si può essere profeti in patria. Un vero peccato però perdersi il finale. La causa e la consolazione di tutto ciò risponde allo stesso nome, Echo & The Bunnymen. Imperdibili anche loro, imperdibile la loro esecuzione che alterna a brucianti claustrofobie gotiche il pathos delle spettrali ballad che solo loro. Su tutte una minimale, sofferta “Killing Moon”, brano emblema dei maledetti anni ottanta, il brano che tutti si aspettavano da Ian McCulloch e soci, il commiato più adeguato per addentrarsi nella fredda e piovosa notte scozzese di ritorno a Glasgow.
2 SETTEMBRE
Anche perché la domenica di chiusura inizia tra le bestemmie per la prematura esibizione di Patrick Wolf, dalle dodici e trequarti all’una e un quarto postmeridiane che mi impedisce di assistere a uno degli show più accattivanti, seppur in versione decisamente ridotta nei trenta minuti scarsi. Le ambizioni soul dellìanglo-srilankese M.I.A. col suo electro-rap da accatto a cui avrei preferito l’anglo-pakistana Natasha Kahn delle Bat For Lashes relegate purtroppo anche loro a orari improponibili (ulteriori bestemmie che si accodano a quelle per le converse sepolte dalle sabbie mobili e i jeans color fango del giorno prima oltre, appuno a quelle per Patrick Wolf), un po’ come i CSS si dimostra un fenomeno di plastica. Molto fumo, pochissimo arrosto. L’esatto contrario di quella signora Guðmundsdóttir, meglio nota come Björk che molti credono in declino e che sale un po’ a sorpresa sul palco prima dell’imbrunire, e non in chiusura di giornata, in una scenografia “ittico-nordico-medievale” con un’orchestrina di fiati direttamente da Reykjavik e la scarna strumentazione ridotta a campionatore, organo e batteria. Il suo abbigliamento è una via di mezzo tra un clown tragico e uno sciamano anche se il viso truccato non nasconde le sue espressioni da ingenua ed eterna ragazzina. La spigolosa “Innocence” non è l’unico estratto dal controverso “Volta” da cui pescherà anche “Earth Intruders” e “Wanderlust”, prima del bis… Brani che dimostrano come si possa permettere ancora quei momenti esuberanti con basi tra hip-hop e house (immancabili, da quel “Post” di dodici anni fa, un’incredibile “Army Of Me” e l’ammaliante “I Miss You”), accanto ad angoscianti momenti dal respiro gotico (“Vokuro”, “Pagan Poetry”) e alle classiche ballad glaciali in cui la sua voce rompe il muro del suono e scioglie i cuori più duri. Da lasciare ai posteri un’inquietante “Hunter” che fa gelare il sangue e l’uno-due che dalla sussurrata “Pleasure Is All Mine”, riscritta per organo, sfocia nella solenne purezza di “Hidden Place”. “Joga” strugge e commuove, gemma dal meraviglioso “Homogenic” cui si aggiungono “Five Years” e “Immature”. Complice l’atmosfera crepuscolare, la musa d’Islanda con il suo irresistibile magnetismo rende il contesto di per sé poco consono a un festival, un paesaggio dai tratti onirici. Dalla dimensione ultraterrena si discende bruscamente sulla terra con l’incandescente finale da fuochi d’artificio tra luci da dancefloor e futuristici laser verdastri che tagliano l’aria. Nel classico “Hyperballad” in medley con la tremenda “Pluto” Bjork rivela un’imprevedibile vena techno-rave. Così come nell’ultimo bis, la frenetica “Declare Indipendence”, dedicata inevitabilmente alla Scozia – “Being scottish, you will understand the lyrics” – con pioggia di coriandoli dorati e un corale “Raise your flag” che travolge il castello di Inveraray. Potrebbe finire qui, con la meravigliosa performance di un’artista inimitabile, ma gli stivali di gomma rimediati in extremis consentono di sfidare il fango in un via-vai tra birra, whiskey, gli svariati palchi (quello dei performer invisibili della Rizla, la discoteca silenziosa che ormai non fa più clamore) e un finale dance a tema DFA, l’etichetta degli Hot Chip (quelli di “Boy From School” e “Over And Over”) miglior nome nuovo della scena electro-dance londinese come dimostra la folla che tracima dal tendone riservato ai gruppi dalle sonorità più “sintetiche” e colui che li ha lanciati, James Murphy e i suoi LCD Soundsystem che si confermano una delle migliori live-band in attività. Non è un caso che anche Björk si soffermi accanto al palco per tutta la durata della loro esibizione nonostante le condizioni climatiche poco invitanti, ammirando le abilità vocali e compositive del guru della scena dance newyorkese in “All My Friends (come gli Underworld rivedrebbero i New Order), le nevrotiche ritmiche sospinte dall’incontenibile batteria nel disco-funky di “Time To Get Away” e “Us Vs Them” passando per l’electro-punk di “Movement”. L’apoteosi, infine, con l’icona islandese che batte il tempo canticchiando, sempre defilata senza duetti né sorprese purtroppo, i classici “Daft Punk Is Playin’ At My House”, “Tribulations” arrivando a ballare, svampita come se fosse ancora sul palco, sulla summa dell’LCD-sound, l’interminabile tunnel senza uscita di “Yeah”. Il Connect finisce qui con la pioggia che prova a lavare via tutto. Ma sarà difficile, molto difficile.
(Piero Merola)
sito ufficiale
www.connectmusicfestival.com