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Probabilmente non sarà un capolavoro questo “Swords” della esordiente Ralfe Band, eppure opere come questa non possono che dare da pensare… In un’epoca in cui sempre più inaggirabile si fa infatti la caratterizzazione “industriale” della musica, schiacciata su formule e prototipi rigidamente definiti all’interno dei quali ogni istante è già sempre originariamente una copia clonabile in infiniti altri esemplari, canzoni come quelle contenute nel disco di questa nuova formazione britannica liberano un potenziale di libertà e di immaginazione che va oltre ogni dimensione di semplice svago o intrattenimento domestico.
La storia di questo gruppo parla di due polistrumentisti, Oly Ralfe e Andrew Mitchell, che iniziano a comporre il materiale poi confluito nell’album addirittura in Giappone (dove Mitchell insegnava inglese), per poi ultimare e perfezionare le registrazioni con l’aiuto del violinista John Greswell (anche al mandolino) in uno studio casalingo a South London. Similmente a quanto già accaduto nella passata stagione musicale con Joanna Newsom o Sufjan Stevens anche queste canzoni liberano piccoli treni sbuffanti attraverso lo spazio ed il tempo, schivando lo sguardo legislatore di entrambi e, quel che forse più importa, salvaguardando l’ipotesi di un’esperienza autentica (non mediata) di ascolto, verrebbe quasi da dire di esperienza tout court. Di fatto la musica è un’arte cieca, che non vede e non si vede, è, in altre parole, un’arte invisibile eppure attraverso le composizioni (che vanno ascoltate ad occhi chiusi) di questo gruppo una vista più acuta e uno sguardo ulteriore riescono a spalancarsi, a disincagliarsi dal loro torpore. Vengono così in mente le invenzioni di Yann Tiersen, soprattutto nei tocchi incrociati di pianoforte che si inseguono lungo i bordi smangiati di una pericolante fanfara (bastino a tal proposito i raffinati strumentali “Frascati Way Southband”, “Siberia” o “March Of The Pams”). Canzoni come “Women of Japan”, ”Albatross Waltz” in effetti si divertono a cantare un mondo favoloso e la gioia infinita di abitarlo, di esporsi al suo miracolo e alla sua più pura meraviglia affondando le mani nel brusio della vita proprio come Amelie faceva nei sacchi di legumi al mercato.
Ascoltando questo disco vi verrà voglia di uscire di casa e di conoscere qualcuno, di parlare con vostra nonna di quand’era giovane (come poco professionalmente è accaduto al sottoscritto), magari invogliati dal frinire di mandolini in un pomeriggio estivo di “Crow” e “Fifteen Hundred Years” o dal distendersi e respirare di fisarmoniche a tratti quasi balcaniche (e il pensiero corre alla Gulag Orchestar di Beirut) di “Broken teeth Song”, in bilico tra dettaglio quotidiano finemente ricamato e fervide fantasticherie addomesticate tra le rime croccanti di una filastrocca che per altro non esita, se necessario, a infilarsi nelle tasche il cinguettio regolare di qualche intervento elettronico (come in “Arrow and Bow” o “Bruno Mindhorn”).
I manufatti di questi due sapienti intagliatori o mastri giocattolai riescono così a far tesoro sia della tradizione compositiva inglese che trova nei Beatles e nei Kinks i suoi principali modelli di scrittura, sia della sensibilità più mossa e irrequieta di esperienze più vicine nel tempo come Daniel Johnston, Badly Drawn Boy, Sparklehorse e Tunng, accomunati da una trasversale appartenenza a quello che potremmo definire un folk mobile e stralunato. Si avverte anche una vocazione waitsiana soprattutto nella tendenza del gruppo a costruire canzoni come piccoli congegni meccanici a molla o soldatini schiaccianoci che avanzano con passo sbilenco e imprevedibile, ambasciatori di un mondo familiare eppure lontanissimo come il rumore di tutti i dettagli e le cose che non avevamo mai notato.