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Da quel “Thunder, Lightning, Strike”, memorabile mix di dance electro-rock, funky, hip-hop, sonorità black, vintage pop, madchester, in un fragoroso clima da adepti delle tendenze più noise e shoegaze, uno dei migliori esordi che si ricordino negli ultimi cinque anni, di anni ne sono passati tre. Tanto è bastato perché questo “new name” indie si evolvesse, grazie a pirotecniche performance sul palco, fino a consolidarsi come nome di punta della nuova scena musicale britannica. Non delude l’attesissimo secondo capitolo dell’allegro sestetto della città di Fatboy Slim, dal titolo che sembra un manifesto programmatico. La voce della tremenda Ninja svaria a meraviglia tra rap e soul negli assordanti intrecci di campionature, beat, percussioni, fiati, banjo, tastiere, chitarre, synth e quant’altro si possa avvertire nella composita – a dire poco – strumentazione della band. Tra i peculiari, epilettici cambi di tempo e gli assalti sonori dell’affiatata base ritmica dell’eclettico quanto multietnico triangolo polistrumentista formato da Sam Dook, Fukami Taylor e Kaori Tsuchida, che a ruota suonano praticamente ogni cosa. Tutto sembrerebbe in linea con le sonorità dello sfavillante esordio, come dimostra subito la frastornante “Grip Like A Vice”, perfetta sintesi di quello che ormai è il Go! Team sound. Ciò che prevale, a tratti, è un mood un più diretto e festaiolo, sulla scia – per restare in tema Go! Team – della frenetica “The Power Is On” più che dell’etereo classico d’esordio “Ladyflash”. “Doing It Right”, ritmica oltremodo ballabile, arrangiamento catchy con trombe e triangolo, ritornello irresistibile in cui si fondono la corposa voce nera della frontwoman e quella da cartoon giapponese della chitarrista, ha tutte le caratteristiche del tormentone da club rock, e non solo.
La sinfonia naif di “Keys To The City” in cui la voce insegue più svampita che mai una tempesta multicolor di fiati, coretti, tastiere tagliate da un riff di chitarra ipnotico, è la prova della loro maturità compositiva. Ancora più svampita nell’instabile rock caramelloso dai toni nippon alla Deerhoof di “Fake Id”, diventa incontenibile in “The Wrath Of Marcie”, rilassato electro-pop dai tratti soul e retrò alla maniera del loro illustre concittadino di Brighton, che condensa in pochi minuti le innumerevoli influenze della band. Sembrerebbe difficile far quadrare i conti in questo indefinibile frullato di stili e tendenze. Loro, tuttavia, con la lodevole intuizione di accostare a un’attitudine pop di immediatezza cinematografica – “Titanic Vandalism”, che sembra un remix di quelle colonne sonore b-movie anni 70, è uno di quei brani che farebbero la gioia di Quentin Tarantino – la loro attitudine per equalizzazioni sature e avvolgenti, da mai nascosti seguaci dei Sonic Youth e, soprattutto, dei My Bloody Valentine di Kevin Shields) in una reciproca stima suggellata tre anni fa da un imperdibile remix. Aleggiano non a caso, questi ultimi, nel synth che taglia “Universal Speech”, improbabile rivisitazione vintage/hip-hop dei Primal Scream. Nei Go! Team non sono i riverberi, i feedback e le dilatazioni chitarristiche a costruire quel muro claustrofobico e straniante tipico dello shoegaze che sembra pervadere l’ascolto in ogni direzione, ma i volumi e l’equalizzazione dell’intero accompagnamento, ruvida, ronzante, chiassosa. Tenuta su da groove altrettanto rumorosi ma secchi e incessanti, tra incastri e sovrapposizioni perfette tra le due batterie, i beat e le campionature. Il resto lo fanno synth, fiati e, ovviamente, l’irresistibile carica di Ninja coadiuvata in questo secondo album dalla brasiliana Marina Ribatski dei Bonde Do Role, da Elisabeth Esselink dei Solex e, soprattutto da Chuck D dei Public Enemy (nel micidiale assedio di “Flashlight Fight”) a testimoniare la loro anima rap, quello dell’old-school newyorkese di due decenni fa dei sopra citati, dei Run DMC e soprattutto dei Beastie Boys, anche per la capacità non da poco di adeguarlo a sonorità apparentemente distanti dal genere, mantenendo comunque una propria identità.
La prova di gioventù può quindi dirsi superata a pieni voti. Poco importa che i sei si sperdano nell’avvicinarsi alla forma canzone nel vellutato brit-pop alla loro maniera di “I Never Need It Now So Much” o che la chiusura dell’album sia assegnata a una “Patricia’s Moving Picture” che sa di già sentito rispetto all’altra più riuscita strumentale “My World”, breve esperimento acustico con un organo smaccatamente vintage, quasi da film anni 60, tra Air e Gainsbourg. Il nuovo cocktail dei Go! Team è questo, così come potrebbe essere tranquillamente nulla di tutto questo.
Non resta che shakerare e servire in ghiaccio.
(Piero Merola)