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Soltanto la stagione scorsa il mondo sembrava in mano ai nati sotto il segno dei Novanta, tra ritorni insperati e risvegli improvvisi: poi questo duemilasette, che è stato quasi annus horribilis per i grandi del decennio passato, con tracolli e delusioni da ripartirsi equamente fra i sigg. Corgan, Homme, Cornell e altri… gli unici ad uscirne vincitori sono due vecchi dinosauri, Joseph Mascis e Frank Black, fino ad ora quasi smarriti nel semianonimato, ti piazzano la zampata che non ti aspetti.
E se al secondo proprio non riesce di rimettere insieme i cocci dei suoi Pixies per più di qualche concerto, gli si dia atto di avere rispolverato perlomeno un po’ del loro spirito: solo qualche tempo fa, in occasione dell’uscita del doppio “Fastman Raiderman”, avremmo dovuto spingerci in aperta campagna per ritrovarlo circondato da una serie di vecchi druidi del country & western che avrebbero fatto invidia a quelli assoldati da Springsteen per le sue “Seeger sessions”. “Bluefinger”, se Dio vuole, è invece cucinato nella vecchia, cara salsa elettroacustica e accreditato – pensa un po’ – al vecchio nome d’arte di Black Francis.
Niente che non si sia già sentito, per carità, specie in tempi come questi dove il garage revival va per la maggiore: ma è un piacere anche il solo sapere che le canzoni del Francis abbiano di nuovo un pacchetto come si deve, con tutto il punk rock e il non-sense di un tempo. Dal passato rispuntano altresì le dinamiche strattonate, i soliti tre accordi veloci, l’alternanza con i coretti femminili (ma stavolta sono quelli di Violet Clark-in-Black), la passione per l’urletto isterico e quella per la chicca da intenditori, quale è “You can’t break a heart and have it”, ripescata dal repertorio di tale Hermann Brood d’Olanda.
Il tempo insomma sembra avere arrugginito soltanto la voce di Black Francis, qui un po’ più arrochita del solito: ma se poi è la carica delle canzoni a guadagnarci, persino la raucedine è ben accolta.