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I duri e puri sono tornati. Se lo scorso anno un serafico Ornette Coleman ci aveva mostrato il lato morbido, malleabile del free, ecco che ora un folletto newyorkese di nome Cecil Percival Taylor, direttamemente dagli sperimentali anni ’60, ce ne squaderna in faccia tutta la tensione estrema e dolorosa. Non è cambiato di una virgola il modo di suonare, lo stile di questo pianista dalla tecnica talmente prodigiosa da lasciare incantato un maniaco perfezionista quale fu Glenn Gould: salito sul palco come un vecchio maestro Yoda dei primi film di Guerre Stellari, ne è uscito come quello possente della nuova trilogia.
Reduce dai due concerti di Bologna e Modena, Taylor si presenta a Reggio in quartetto completo: Tony Oxley a batteria e percussioni, William Parker al contrabbasso, Anthony Braxton ai sassofoni. Braxton-Taylor: una coppia delle meraviglie, due prìncipi del free che mai avevano suonato insieme.
Strardinaria la scaletta: performance dei singoli nella prima parte, grande jam-session collettiva nella seconda. Si comincia con Taylor e Oxley, compagni in una sorta di recitativo surreale, intessuto di vocalizzi allucinati. Il batterista inglese sfodera meraviglie timbriche impensabili, creando un vero e proprio dialogo a due voci con il leader che dedica al piano solo qualche lugubre giro di note nella parte bassa della testiera. Non poteva capitare avvio più ostico, come a dirci che il free più estremo è sperimentale esattamente come certa classica contemporanea. Citando il Bach delle suite per voloncello Coleman ne sottolinea la libertà grammaticale, “portandolo” al jazz; accostandosi a certo estremismo colto dell’oggi Taylor agisce in senso opposto ma per dire sostanzialmente la stessa cosa: il jazz – e in particolare il free così soggetto a facili ironie – non significa note in assoluta libertà e allo sbaraglio, bensì libertà nel rigore.
Anche quando la scrittura sembra più svincolata da regole, una semplice traccia di fondo. Ci pensa comunque William Parker a stemperare la tensione, elargendo una dolce e ripetitiva melodia al flauto. Un flauto di bamboo suonato percorrendo in lungo e in largo il palco sino a raggiungere il fatidico contrabbasso, che di botto dissolve l’illusione di pace: ci attende una improvvisazione furiosa che violenta le corde allo spasimo, in quella ricerca timbrica lancinante così cara al free che subito dopo un pacioso Anthony Braxton esibisce nei fiati. Sax sopranino, soprano, contralto, contrabbasso: il raffinato e colto musicista di Chicago non smentisce la sua predilezione per le taglie inusuali. Tenendo il bocchino lateralmente permette una abbondante fuoruscita d’aria, che sfrutta con brillanti effetti; non risparmia le ancie – costrette ad urlare una grande abbondanza di suoni multipli – recita filastrocche nei cambi di strumento e conclude con mirabolanti fraseggi.
Quando Taylor ritorna sul palco per un a solo l’attesa è altissima: depone sul leggio uno dei suoi logori foglietti volanti, arcani contenitori di formule magiche, e inizia a suonare. Scrive bene Aldo Gianolio: è action jazz il suo, parente prossimo dell’action painting di Pollock: un libero sgocciolare di note sulla tela che è il nostro orecchio, completamente slegate se viste da vicino, composte in un quadro unitario di senso compiuto se contemplate da una certa distanza. Una distanza che spesso è la nostra memoria dell’evento musicale stesso. Non è violenta l’improvvisazione del nostro, relativamemte poco percussiva; affiorano persino lacerti sfigurati di melodia: quando vuole sa anche accarezzare la tastiera. Del resto è naturale: la devastante foga strumentale così tipica del free più acceso, quell’effetto di dirompente entusiasmo democratico, ha modo di esprimersi soprattutto in polifonia. E in questo senso il gran finale non delude. Tiene desto l’ascoltatore nello sforzo di utilizzare il grandangolo uditivo su una “discordia concorde” che quarant’anni di musica non solo non hanno invecchiato ma anzi ringiovanito. Nel concerto di Bologna Taylor aveva subito improvvisamente un tale calo di ispirazione, un cortocircuito nel dialogo coi compagni, da costringerlo ad interrompere la performance. Un numero alla Keith Jarrett di quelli che nonostante tutto ti fanno amare ancora di più il jazz e tutta la tensione intellettuale ed emotiva che sorregge l’improvvisazione.
A Reggio nessun intoppo, il folletto snocciola le sue note senza esitazione, il suo volto non denuncia nessun disappunto. Solo il fedele Oxley, lo sguardo sempre rivolto al pianista, si incupisce per qualche secondo: smette di suonare, borbotta qualcosa in direzione di Braxton, Braxton si arresta. Poi le nuvole passano e torna il sereno. Ma, forse, è stata una seconda avvisaglia che questa prelibata collaborazione fra il Feel Trio di Taylor e il professor Braxton non avrà modo di ripetersi. Anche nel free ci vuole qualche comandante, ma due sono di troppo.