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In un anno caratterizzato da un forte ritorno di interesse, soprattutto da parte degli artisti, per i dischi di cover, i Mariposa decidono di controbattere alle varie Patti Smith e Laura Pausini dando alle stampe una selezione di cover che la band di stanza a Bologna (ma comprendente membri originari di varie regioni italiane) ha realizzato nell’arco della sua ormai quasi decennale carriera. L’album è interessante e va collocarsi in un percorso di ricerca non del tutto estraneo alla band, che ha già pubblicato nel 2004 “Nuotando in un pesce bowl”, raccolta di divertenti rielaborazioni in chiave elettronico-sperimentale di celebri motivi popolari napoletani. Da ricordare anche la recente realizzazione, in compagnia dei Transgender, di una cover di Francesco De Gregori, “Il Signor Hood”, poi confluita nel disco tributo apparso nell’ultimo numero del Mucchio Extra.
Un frequentazione piuttosto regolare e stimolante del formato “cover” e in più in generale (come vedremo) del cosiddetto divertissement (una sorta di arte nell’arte) che consente da un lato di definire in modo più preciso il tessuto di influenze musicali che sta alla base del progetto Mariposa e dall’altro di entrare (usando, per così dire, la porta di servizio) all’interno dei suoi spesso sfuggenti meccanismi compositivi. La cosa non è priva di motivi d’interesse, dato che i Mariposa, anche alle luce degli otto dischi pubblicati, rappresentano una delle esperienze più anomale e piacevolmente dissonanti dell’attuale panorama italiano. L’universo sonoro di questo gruppo infatti si caratterizza per la molteplicità, spesso conflittuale, di elementi e materiali che confluiscono disordinatamente al suo interno: un magmatico flusso psichedelico squarciato da momenti di pura improvvisazione strumentale e vaghe tentazioni progressive (come ben documentato dalle due impegnative e affascinati cover dei numi tutelari Gong e King Krimson, ma mi sarei aspettato anche i Residents o gli Sparks), su cui vengono poi innestati vertiginosi ritorni ad una forma canzone più propriamente detta, che intrattiene un qualche tipo di rapporto con la tradizione italiana e in cui si precisa una certa predilezioni della band per il non sense di marca dadaista e per una velata satira sociale (vedasi nel caso specifico le forse non troppo incisive cover di Jannacci e Gaber e la bellissima rielaborazione di “Monti di Mola” di De Andrè, un piccolo capolavoro).
Ma la raccolta consente anche, come detto, di chiarire l’approccio stilistico e le specifiche strategie compositive adottate dalla band, tanto più evidenti in questi raffinati esercizi di ventriloquismo nei quali i Mariposa si divertono ad indossare le canzoni altrui come indumenti o, che è poi la stessa cosa, fanno indossare sé stessi agli artisti più amati. La beatlesiana “Ob-La-Di Ob-La-Da” (già di per sé un birignao o simpatica macchietta) viene proiettata in una dimensione ancora più caricaturale, con un coro alla Bad Spencer e Terence Hill (alla “Altrimenti ci arrabbiamo”, se non sbaglio) che sembra quasi scribacchiare un paio di baffi irriverenti sul candore (tutt’altro che innocente) dei quattro liverpooliani. Allo stesso modo una canzone volutamente scabrosa e intrisa di un sottile desiderio di peccato e oscenità come “Male di Miele” viene addirittura fatta cantare da una ignara bambina di otto anni (!). In “Il Maestro e l’aerosol” i Mariposa si spingono poi fino all’incesto, rieseguendo e coverizzando sé stessi.
Ad emergere è soprattutto il senso di quella “Musica componibile” con cui i Mariposa hanno cercato di definire il senso più profondo della loro ricerca sonora. Anzi, da un certo punto di vista la “Musica Componibile” arriva quasi a coincidere con la pratica stessa della cover: i pezzi originari vengono infatti smontati e ricostruiti secondo modalità e geometrie di senso spesso del tutto autonome rispetto agli intenti originari, scompaginando gerarchie di forma e significato che sembravano tanto necessarie quanto inamovibili. Eppure rimodellando la disposizione degli elementi all’interno di una canzone i Mariposa ne erodono o rovesciano ogni significato, come se forma e significato coincidessero, denunciando al tempo stesso la totale e completa modificabilità/manipolabilità della musica e desacralizzandone soprattutto, nel solco della più classica vocazione zappiana, qualsiasi altisonante pretesa di verità.