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La prima e al momento unica uscita solista di Kelly Jones (“Only The Names Have Been Changed”) era in realtà soltanto un assaggio, un’urgenza del momento e uno sfizio da togliersi in poco tempo. In quegli stessi giorni infatti gli Stereophonics stavano portando avanti altro: dodici tracce che oggi prendono il nome di “Pull The Pin”.
Nati come al solito durante un’intensa attività on the road, alcuni di questi pezzi erano già stati presentati sul palco e un paio anche resi disponibili in versioni live da scaricare (a pagamento… sì, beh… ci siamo capiti…). Le impressioni, diciamolo, non furono delle più positive. Anzi… E oggi, con il disco in mano possiamo solo in parte tirare un sospiro di sollievo.
Diciamolo: gli Stereophonics non hanno più molto da dire. Non che si tratti di un gruppo generazionale o che ha mai saputo dare qualcosa alla storia della musica… ma una buona dose di rock britannico, con una gran voce a farla da padrone e un bel contorno di melodie pop. C’è gente che farebbe carte false per tutto questo.
E allora?
E allora metti su “Pull The Pin” e sai già come comincerà, come continuerà e come finirà.
Bella scoperta!
Già… lo so che tutti i loro dischi possono rientrare in questa facile descrizione; li ho ascoltati tanto, forse pure troppo… eppure una volta riuscivano ad emozionare e quella voce aveva davvero un senso. Per questo speravo che il disco solista volesse rappresentare qualcosa: un ritorno all’intimità dopo lo svarione da rockettari incalliti e di pelle vestiti, celebrato dal doppio “Live From Dakota”.
E allora dov’è il sospiro di sollievo di cui sopra?
Beh, semplicemente “Pull The Pin”, nonostante la copertina da denuncia, è meglio di “Language, Sex, Violence, Other?”, disco che assieme a pochi altri esemplari era diventato il nuovo punto di riferimento per gli studi a proposito del vuoto cosmico.
“Pull The Pin” infatti comincia benissimo con “Soldiers Make Good Targets”, uno dei loro pezzi rock tipici alla “Performance And Cocktails”, e finisce altrettanto bene con “Drowning”, una delle prove vocali più intense del disco.
Quello che troviamo in mezzo è una specie di bignami dello stile Stereophonics, con i pezzi che ricordano malamente i primi tempi più allegrotti (“Crush”) o fotocopiano quelli più malinconici (“It Means Nothing”); non rinunciano all’inutilità di “Daisy Lane” né alle pose rock, che funzionano ma non graffiano, in “I Could Lose Ya” e “Pass The Buck”; recuperano per poco la bella sincerità acustica di “Just Enough Education To Perform” in “Bright Red Star”.
Riscoperta la formazione a tre, senza troppi orpelli elettronici che facevano vieppiù pena, e senza troppi comprimari, “Pull The Pin” riscopre l’essenza della santissima trinità chitarra-basso-batteria; il fatto è che se non per pochi momenti che comunque non aggiungono davvero nulla di nuovo, gli Stereophonics smettono quasi ufficialmente di essere qualcosa che può seriamente entusiasmare. Quindi non un album di transizione… forse semplicemente non possono suonare in modo diverso da così.