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Quando Homesleep pubblica un disco cantato in italiano, allora quasi sicuramente si tratta di un piccolo evento. Nella storia dell’etichetta bolognese è accaduto solo due volte: la prima per il ritorno alla musica di Emidio Clementi (e chissà se gli El~Muniria torneranno, o il senso del loro esistere si è esaurito con il racconto di quel viaggio…), e la seconda ora, con gli Amor Fou. I nomi più noti sono quelli di Alessandro Raina (contestatissima voce dei Giardini Di Mirò all’epoca di “Punk…not diet” e autore di un paio di ottimi dischi da solista) e di Cesare Malfatti (l’anima elettronica dei La Crus), ma Amor Fou è un affare essenzialmente privato, giocato tra le parole del cantante e le musiche di Leziero Rescigno.
Ed è anche un progetto estetico, ancora prima che musicale. Basta ammirare le foto ingiallite del booklet, o leggere i titoli delle canzoni che avrebbero potuto adattarsi a pellicole di Truffaut, per rendersene conto: “La stagione del cannibale” è un progetto perfettamente disegnato, con una sua ambientazione storica (l’idillio degli anni ’60 che esplode assieme a piazza Fontana), sociale (Roma e Milano, pariolini e freak, buona società e la noia borghese di novelle madame Bovary) ed estetica.
Perfetto, se non fosse che il vero anello debole di questo disco è… la musica. Nobile nelle intenzioni di unire il cantautorato nazionale alle malinconie di tecnologia sottile di Notwist e Blonde Redhead, mediocre nei risultati, somigliando spesso a un ibrido pretenzioso ed appesantito tra Riccardo Sinigallia e Moltheni.
La canzonetta guarda alla società, si veste di una storia nobile e toccante, ma il risultato non dice proprio nulla. Sarà che i testi oscillano tra poesia pura e leziosità da intellettuale, sarà che le linee vocali sono banalissime, ma “La stagione del cannibale” è un album narciso: continua a guardarsi allo specchio, complimentandosi per il suo vestito ineccepibile.
A meno che tutto il disco non sia a sua volta una metafora per quegli anni ingialliti dalla memoria di falsi conflitti sociali. Perché è proprio alla fine, quando le emozioni reali prendono il sopravvento, che si rivaluta tutto: la sincerità della confessione degli amanti in “Che cos’è la libertà?” e la sospensione de “L’anno luce” (con “La strage” a disegnare nell’aria la scia di una bomba che esplode e scrive la fine della storia) fanno rimpiangere un disco che non c’è. Perché “La stagione del cannibale” avrebbe potuto essere bellissimo. E invece è solamente un capolavoro di scenografia, a servizio di un copione banale.