Share This Article
Che non scherzassero affatto lo si era capito appena Giampiero Felici aveva aperto bocca: ma Ardecore aveva ancora quell’aria da progetto “una botta e via”, uno sfizio che per un momento aveva avvicinato musicisti solitamente troppo diversi e in altre faccende affaccendati.
Al fatidico secondo appuntamento, invece, l’ensemble romano si è presentato non solo puntuale ma pure cresciuto, e ancora in pieno subbuglio creativo: le spinte interne al gruppo si sono fatte più forti e ognuna delle componenti strattona la coperta dalla propria parte. La famiglia Zu si emancipa dalle retrovie ritmiche, impone dissonanze ed elettricità per sentire più “suo” il progetto, Venitucci esagera con gli arrangiamenti d’archi e con i fiati jazz, Felici estende i suoi orizzonti da interprete e, a conti fatti, è giusto il talento di Geoff Farina a rimanere un tantino soffocato in tanto bailamme, accantonando gli assoli e le digressioni che riempivano i dischi dei suoi Karate.
La chimera degli Ardecore sembrerebbe proprio quella di farle convivere, tutte queste anime così lontane: c’è spazio per il folk e per il blues, per la melodia italiana e per il rock scuro e sgangherato, per il jazz e per gli ottoni della Banda de’Borgata, per Gabriella Ferri e per Nick Cave. C’è spazio per tutti gli argomenti che, dal Ventennio fascista in avanti, siano passati per il repertorio canzonettaro romano: soltanto dalla produzione di Gabrè vengono ripescati due pezzi che non potrebbero essere più diversi. Per quanto alleggerita da un arrangiamento moderno, “Miniera” è ancora quella trombonata composta cinquant’anni orsono da Bixio e Cherubini, la coppia tradizionalista e ultramelodica per eccellenza che strappava il core agli italiani a forza di melodrammi formato mignon. “Quel ritmo americano” è, al contrario, una delle prime e timide fascinazioni per il sincopato “infernale” del jazz, la musica dei negri e di Luigi ForteBraccio che i camerata del Fascio ascoltavano rinchiusi nei propri uffici e con il quadro del Duce girato verso il muro.
Molto più del fratello maggiore, uniforme nei temi e nella veste musicale, “Chimera” è un lavoro che se la rischia, mettendo nella stessa pentola molti ingredienti e cercando di mescolarli al meglio. I risultati sono alterni ma, ascolto dopo ascolto, lo stile cresce e si definisce riuscendo perfino a smarcarsi dal calco dei canti tradizionali: testo e musica di pezzi originali come “Buon Natale” (waitsiana fino alla goduria) mostrano che la lezione del Passato è ben assimilata e reclamano la strada autografa come unica via per non implodere, anzi, per continuare ad Ardere.