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Quando uscì “The Rising”, 2002, non erano in molti – se togliamo i fan assatanati e la critica da quotidiano che parla bene sempre di tutti – a scommettere un cent sullo stato di forma di Bruce Springsteen e la sua E-Street Band, riuniti sotto lo stesso tetto dopo “Born in the USA”. Era passato molto tempo, in effetti. Ma il disco era e rimane un lavoro validissimo. Canzoni solide, sentite, sofferte il giusto. C’era qualcosa da dire ed era riuscito a dirlo nel mondo migliore. Sono passati cinque anni abbondanti da quel disco e siamo tornati a parlare di Springsteen con la band. Perché anche il buon vecchio Bruce, dopo esperimenti solisti che lasciano pensare (“Devils & Dust”) e progetti estemporanei fatti e finiti per divertirsi e divertire (“The Seeger Sessions”), sente il richiamo della sua vecchia band. Non crediamo all’effetto nostalgia atto solo a far abboccare i succitati fan (stiamo parlando sì di un artista fondamentalmente commerciale, ma, signori… è pur sempre Springsteen), se non ci fosse stata la necessità di dire delle cose, questo “Magic” non sarebbe mai esistito. Il problema, semmai, è uno solo: può la vecchia ricetta durare in eterno? Dal vivo sì. Su questo siamo sicuri. Su disco siamo confusi. Confusi perché il numero 15 della discografia springsteeniana è effettivamente un disco che spiazza.
Brendan O’Brien è nuovamente in sala comando e questa volta mostra tutti i suoi limiti. Il produttore si dimostra senza personalità ed incapace di incanalare il sound e costruire un muro convincente ed accattivante. Vaghiamo in un mainstream all’acqua di rose che spinge sull’accelleratore Pearl Jam (“Radio Nowhere”) e frena in inconcludenti ballads che affogano ogni buona intuizione in un mare di mediocrità da Arena Rock con tanto di tastieroni, ghirigori e accendini accesi. E sì, non sempre la qualità delle canzoni salva la baracca. Ma se è pur vero che in queste dodici canzoni almeno sei meritano di finire su un “vero” disco (e ve le elenchiamo subito: “Radio Nowhere”, “Gypsy Biker”, “Girls In Their Summer Clothes”, “I’ll Work For Your Love”, “Magic” e “Devil’s Arcade”), l’altra metà si guarda intorno domandandosi del proprio futuro. Non tanto per i suoni e la forma, quanto per la sostanza. Non crediamo che Springsteen sia stanco, semmai un po’ appagato e ormai indulgente con sè stesso. Capita quando sei un gigante ed ogni volta che prendi una penna in mano ripensi a “Born to Run” e affini. Mettiamoci nei suoi panni. Non dev’essere facile. Mettiamoci anche nei nostri, di panni. Forse questo disco non verrà ascoltato e consumato come tutti gli altri.
Il succo è tutto qui.