Share This Article
L’immagine che rappresenta una serata è quella che, ad un certo momento, è apparsa sugli schermi a fianco del palco: davanti a tutti, transennati, un quattordicenne con maglietta nera metallara d’ordinanza e un sessantenne con baffo alla Lemmy e capello completamente bianco neve. Fianco a fianco, e con un sorriso talmente felice da risultare ebete davanti al loro eroe Ian Gillan. Ecco, se volessimo riassumere tutto in uno screenshot, quello è stato il concerto dei Deep Purple di Mantova. Non si sta parlando di generazioni differenti, quelle erano ere geologiche a braccetto.
I Deep Purple. A dir la verità si sono presentati al Palabam solo tre quinti della Mark II, la formazione che tutti hanno nel cuore, manchevoli cioé degli assi portanti Blackmore-Lord (chitarra/hammond, e scusate se è poco), ma l’assenza non è contata un granché. Steve Morse ha sopperito egregiamente, senza scimmiottamento alcuno, a quel mostro di Ritchie (il cui stile, è risaputo, è come quello di Clapton, Knopfler e compagnia bella, di quelli che riconosci alle prime tre note… un’impresa immane dunque sostituirlo).
Ma il vero mattatore è stato Gillan: look stranamente poco cattivo, finto-giovanilistico, con maglietta a righe orizzontali multicolor che faceva molto seratina post-spiaggia al ristorante del pesce con abbondante profumo Pino Silvestre e libretto della (lauta) pensione nel taschino. Nonostante l’aspetto più in tema con una dimostrazione dell’Aspirapolvere Folletto che con l’esegesi dell’Hard Rock con la H e la R maiuscole, la voce di Ian Gillan è parsa a tratti stratosferica, più in corda che vent’anni fa, quando il sottoscritto vide live i Purple (era l’88). Lui sempre in movimento, con un aplomb da Frank Sinatra hard che riempiva completamente il palco. Una voce eterna, e solo chi ha smagnetizzato la cassettina di “Made in Japan” a forza di ascolti può capire di cosa sto parlando. In scaletta niente “Child In Time” e niente duello con la chitarra, ovvio, avrebbero smascherato inesorabilmente la sua età: per tutto il resto immaginatevi Ian Gillan. Ecco, era lui.
Nella prima parte del concerto viene concentrata la produzione più recente, a parte “Into The Fire” e “Strange Kind Of Women”. Steve Morse ha i suoi cinque minuti di scena tutta per lui (come del resto poi anche gli altri si ritagliano) e nel suo solo passa dal blues alla classica citando Hendrix e gli AC/DC (il riff di “Highway To Hell”). Dopo “The Battle Rages On” i Deep rifanno una capatina in “Made in Japan” con “Lazy” per poi continuare eseguendo una perfetta “Perfect Strangers” come cinque ragazzi incazzosi. Ma è per il finale che i Deep riservano i fuochi artificiali: “Space Truckin’”, “Highway Star”, “Smoke On The Water”, “Hush” e “Black Night”. E l’ora e cinquanta di concerto finisce come era iniziata, con tutto il pubblico che canta il riff di “Black Night” a mò di incitamento e di ringraziamento.
C’è una cosa che mi ha sempre fatto andare in bestia: che i Deep Purple abbiano (per ora) il destino di essere considerati meno mitici solo perché non è morto nessuno di loro (della Mark II, Bolin a parte). Facile salire direttamente nel Mito quando si ha un Jim o un John (Lennon & Entwistle & Bonham) che sono passati a miglior vita più o meno giovani e belli. Più difficile è dimostrarlo sempre e comunque, anche da vecchi.
E come non imparare da una serata come questa? Istruttiva per chi riesce ancora a farsi emozionare da quel qualcosa riassumibile in una parola, “rock”, che non vuol dire droga ed eccessi ma piuttosto coraggio, rabbia e tenacia. A Mantova ho respirato tutte queste cose: quando avrò sessant’anni, se ci arrivo, voglio essere come Ian Gillan e come quel baffuto canuto transennato. Due simpatici nonni con l’animo di chi ne ha viste tante ma è ancora, in fondo, un quattordicenne metallico.
(Paolo Bardelli)