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Era il 1989. L’acid house stava scrivendo nuove coordinate musicali e ridisegnando la mappa dell’intrattenimento giovanile. La club culture impazzava e l’Hacienda di Madchester era la Mecca che attirava il popolo della notte. L’Ecstasy era semplicemente la droga. Andando verso il mare si passava per Londra, capitale aperta alle mode e sempre in prima linea nel cogliere al volo le nuove tendenze. Qui Alan McGee, geniale boss della Creation, aveva sentito il richiamo della futura E-generation e si era buttato a capofitto in questo nuovo trend, iniziando dall’Ecstasy il suo percorso verso il baratro delle droghe pesanti. Più giù, non lontano dalla Manica, i Primal Scream giravano per Brighton vestiti di pelle, fedeli al credo dei Clash e amanti della trasgressione in stile New York Dolls. Difficile immaginare quei quasi trentenni imbottiti di pasticche da un giorno all’altro.. ma anche questo sarebbe stato frutto della loro attitudine punk. Fu semplicemente una fortunata combinazione di eventi. La persona giusta al momento giusto, assieme a una buona dose di coraggio. Niente sarebbe più stato come prima.
L’addetto stampa della Creation, Jeff Barrett, si impasticca una sera e tramite un amico comune viene presentato ad Andrew Weatherall, rampante giornalista e dj allo Shoom della London-by-the sea. Barrett gli passa una copia del secondo, omonimo lp dei Primal. Un album zeppo di rock’n’roll di matrice MC5 e Stooges. Nessuno amava quel disco. Weatherall s’innamora di due ballate e si offre di remixarne una, “I’m Losing More Than I’ll Ever Have”. Il remix da parte dei dj iniziava ad affermarsi ma per McGee i Primal Scream erano e dovevano rimanere un gruppo rock: niente a che vedere con la dance. Alla fine, dopo mille battaglie, Weatherall entra in studio assieme ad Andrew Innes, mente e chitarra dei nostri. Ne esce “Loaded”, un pezzo che è un successo immediato. Numero 16 delle classifiche e Primal Scream lanciati in orbita diventando immediatamente un gruppo di culto. La loro musica, riscritta. La loro immagine, capovolta.
“Loaded”, disco manifesto di questa rivoluzione che si spargeva a macchia d’olio in tutta l’Inghilterra, significava semplicemente la svolta. Ricostruito attorno a un loop di batteria che segue l’outro della traccia originale, aggiunte di cori gospel, tastiere funk e fiati super effettati che suonano la melodia portante. Un feeling generale di benessere, voglia di ballare e divertirsi. La sintesi perfetta di una cultura ormai sempre più di massa. Era il 1990.
Tra le fortunatissime tournee inglesi e giapponesi, i Primal Scream vanno quindi scrivendo quello che è ancora oggi considerato il loro miglior disco. Per l’esattezza, più una raccolta dei singoli usciti in quell’anno e qualche nuova canzone che pezzi esclusivamente composti per l’uscita dell’lp. Ma il risultato non cambia. Un caleidoscopio di suoni, una fusione del tutto sperimentale di stili, attitudini e sensibilità pescate dagli anni ’50 ad allora. Una miscela di blues, acid house, jazz, r&b, gospel, reggae, funk, dub e chill out che unisce il rock alla musica dei club e dei rave in una miriade di forme e soluzioni come nessuno aveva saputo fare fino ad allora.
Al banco si susseguono l’ormai consolidato Weatherall, The Orb, Hypnotone e Jimmy Miller. Un lungo battito che pulsa attraverso undici canzoni. Si comincia da “Movin’On Up”, dalle sonorità classiche (Stones, di cui mi Miller era il produttore) ma con chitarre super trattate, un piano nuovamente trascinante e un coro gospel ad accompagnare la voce di un radioso Gillespie: My life shines on! …e il mood è immediatamente spensierato e volto al divertimento. Quel che teneva assieme i giovani con l’Ecstasy. La virata verso l’acid house arriva più decisa nella rivisitazione di “Slip Inside This House” dei 13th Floor Elevators, dove al tappeto sonoro assai più danzereccio il ritornello vede lo scambio di Slip con Trip: segno che l’assuefazione era un requisito necessario per immergersi più intensamente nella musica. Stessa formula, ma beat più sostenuto assieme a dub e contaminazioni tribal si registrano invece in “Don’t Fight It, Feel It” con la diva di Manchester Denise Johnson alla voce. “Higher Than The Sun” si eleva invece verso una dimensione spaziale e lontana dal tempo. Space-disco blues, per dirla alla loro maniera. Unico pezzo a mantenere un punto di contatto con i “vecchi” Primal è il blues invece più tradizionale di “Damaged”, splendida e malinconica ballata piano-chitarra con assolo finale. Atmosfere più ambient-chillout si respirano poi nella strumentale “Inner Flight”, opera dell’innovatore Weatherall, e nella catartica “I’m Comin’ Down”, che vede un sax quasi in trance accompagnare l’altrettanto spirituale voce di Bobby. Il tutto senza lasciare per strada l’ormai classico “Loaded”, vero e proprio cavallo di razza, con quelle Gibson che arrivano puntuali quando la canzone sembra scemare. I’m gonna get deep down!
A sforzarsi si può trovare anche qualche motivo di discussione. Come il mix di Weatherall di “Come Together”: oltre dieci minuti che puntano coraggiosamente sulla sperimentazione in salsa house e condita da cori gospel ma che tagliano senza pietà il meraviglioso cantato etereo di Bobby Gillespie. Fortunatamente ci sono i due mix di Terry Farley, presenti sui singoli, per godere di uno dei migliori pezzi dei Primal Scream mai incisi. Semplicemente la summa di “Screamadelica”: musica contaminata tanto lisergica e sognante quanto ancorata a terra alle radici culturali proprie di quella tradizione black molto amata dal gruppo. Alla fine, comunque, ci si imbarca per l’ultimo viaggio. Dopo la lunga reprise di “Higher Than The Sun (A Dub Symphony In Two Parts)”, che alterna momenti cacofonici a tratti più strutturati e fatti di beat, bassi reggae pulsanti e sintetizzatori sibilanti, “Shine Like Stars” ha il compito di chiudere l’album in poco meno di quattro minuti. Una sorta di lullaby mistica ed armonica a cui abbandonarsi prima di essere condotti all’uscita dal trip fisico e mentale. Difficile immaginare di meglio.
Dall’America usciva “Nevermind” ma l’Inghilterra di allora era ben altra cosa rispetto a Nirvana e Pearl Jam. Nel suo anno d’oro, la Creation dava alle stampe “Loveless”, “Bandwagonesque”, “Just For A Day” e “Raise”. E c’erano sempre i Times di Ed Ball. Non un boom a livello finanziario ma artisticamente senza precedenti. E “Screamadelica” fu l’akmè di quell’annata straordinaria. Era il 1991.