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Esce per la sempre più eclettica Sub Pop un interessante disco a firma Brunettes. Trattasi di un duo (uomo/donna) neozelandese che ha già avuto modo di farsi conoscere in giro per il mondo aprendo i concerti dei compagni di etichetta Shins e degli Architecture In Helsinki. Il gruppo non è propriamente esordiente, infatti prima dell’approdo su Sub Pop ha già inciso un paio di lavori reperibili nel mercato d’importazione. Verosimilmente tuttavia è attraverso questo ultimo album che la band avrà modo di farsi apprezzare da un pubblico più ampio.
Il disco si apre con “Brunettes Against Bubblegum Youth” (o più semplicemente “B.A.B.Y.”) che è come dire un piccolo Big Bang fiammeggiante, infarcito da un tripudio di cori, battimani filanti e le detonazioni a catena di una nutrita effettistica psichedelica, in una piccola alba musicale da età dell’Acquario che annoda e condensa i gas vaporosi di Polyphonic Spree, I’m From Barcellona e Architecture In Helsinki. Dalla rottura di questo uovo originario scivolano e defluiscono tutti gli elementi di una variegata e sfrigolante frittatona pop cosmica, sempre memore del ricettario postmoderno scritto con l’inchiostro simpatico dagli Stereolab, e degli erbari deliranti dei Fiery Fournaces (il gruppo su cui questi Brunettes sembrano a volte troppo schiacciati). In “Stereo (mono mono)” il caos primordiale dell’overture si scinde e particolarizza in un dialogo tra maschio e femmina, tra Adamo ed Eva (non è facile non pensare a Serge Gainsbourg), ed è interessante notare come una voce sia registrata in stereo mentre quella che le fa eco si diffonda in suono rigorosamente mono, quasi a rimarcare l’irriducibile differenza sessuale di cui questo disco cromosomico ed ermafrodito si sostanzia, schiudendosi nel pezzo in questione in un unisono finale (un orgasmo?) in cui le due metà del cosmo riescono a sfiorarsi. Storia della musica e storia della vita sembrano intrecciarsi e a tratti coincidere.
“Her Hairagami Set” si attarda con occhio indiscreto nell’esplorazione divertita di una sorta di toeletta, sventagliando il repertorio cosmetico di un dream pop capace di passare attraverso la varietà di voci e colori di rossetti, rimmel e correttori (come ricordato anche dall’art work del disco, già a partire dal titolo), svolgendo tutto il variegato microcosmo femminile di una musica che si diverte a scolpire l’architettura variabile del proprio viso come un visagista in vena di scherzi o un parrucchiere. Forse è proprio l’eccessivo trasformismo (a tratti travestitismo) a pasticciare troppo la coesione complessiva del lavoro, rendendolo un po’ dispersivo e indigesto: da un pezzo come “Credit Card Mail Order” che canta con tono semiserio il potere salvifico di un acquisto con carta di credito (nel quadro di un disco che non fa che rivendicare l’importanza del superficiale) sfiorando la compostezza e il nitore di certe stampe country blues, si svolazza con movenze leggiadre a succhiare il miele della zuccherosa “Obligatory Road Song”, una plasticosa infiorescenza di sinth pop ottimistico e sproloquiante. E così dall’interno decisamente francese di “Small Town Crew” attraverso una porticina minuscola ci ritrova ad osservare le curve dei morbidi “Sha la la la” del piccolo origami beatlesiano “If you were alien” , fino all’eponima “Structure & Cosmetics”, un folk western, bagnato da vaghi umori morriconiani , tra le cui linee s’impiglia l’immagine mossa di un gruppo irrequieto e forse indeciso, e quindi acerbo se indeciso, che vuole suonare tutto e che di fatto non ha il suono di niente, ma che riesce a scatenare in tutto il loro pirotecnico potenziale le infinite possibilità trasformistiche e manipolatorie della musica pop.