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Mentre si celebra la fama istantanea come manifestazione del potere miracoloso del web-due-punto-zero, c’è in giro gente che arriva a farsi notare in modo più tradizionale. Gli statunitensi National si sono formati nel 1999 e hanno pubblicato due album circolati solo fra amici e parenti stretti prima di piazzare il primo colpo di classe, lo splendido “Alligator” del 2005, che gli ha permesso di abbandonare finalmente i lavori da topi d’ufficio (che tornano come un incubo ricorrente nelle loro canzoni). Quest’anno hanno bissato con “Boxer”, un album persino superiore, tra i migliori di questo 2007 ormai al capolinea. La loro unica data italiana era chiaramente un’occasione da non perdere, soprattutto per scoprire dal vivo come riescono a tenere assieme le loro varie anime: le tensioni new wave, la tradizione americana, il cantautorato con reminescenze di Leonard Cohen e Nick Cave.
Alle 22,15 i National occupano il piccolo palco dell’ex Transilvania, e salta subito all’occhio quanto non siano trendy: niente cravattine, niente pantaloni stretti, portano brutte felpe e barbe incolte. Il frontman Matt Berninger, alto e allampanato, sembra la versione simpatica di Jim Reid dei Jesus & Mary Chain, ha addosso un camicione a quadri che neanche negli anni ruggenti del grunge. I brani da “Boxer” fanno la parte del leone: si parte con la sommessa “Start a War” per passare subito dopo alla minacciosa “Mistaken for Strangers”, uno dei brani di matrice più marcatamente new wave. Berninger, un po’ impacciato ma inaspettatamente gioviale, dedica “Baby We’ll Be Fine” a tutti quelli che hanno i “lavori diurni”, sua antica nemesi, lui che ora ha un night job… ha in effetti la faccia e il portamento di nighthawk, come li chiama Tom Waits, e davvero non ce l’avrei visto a invecchiare dietro a una scrivania. Dietro di lui cresce la triangolazione implacabile fra le chitarre dei fratelli Aaron e Bryce Dessner e il violino di Padma Newsom, membro aggiunto e factotum la cui versatilità e presenza sul palco mi ricorda certi instancabili folletti del progressive piuttosto che un tenebroso rocker dell’East Coast.
Non c’è dubbio che The National sia gente abituata a lavorare sodo, niente pose e tutta sostanza: sono tesi, concentrati, alternano nervosamente momenti sommessi a improvvise sfuriate elettriche, che spesso sfociano in chiassosi crescendo con grancassa e rullante all’unisono (che a fine serata saranno un po’ abusati). Su questo spigoloso tappeto sonoro Berninger si lascia andare, occhi socchiusi e mani sul microfono, con la voce che si spezza, muore quasi sulle labbra mentre attorno a lui le chitarre passano dagli arpeggi a scariche di feedback brucianti. A metà del set arriva l’uno-due che stende definitivamente l’uditorio del Musicdrome: prima la grandiosa “Squalor Victoria”, cupa invocazione pagana e brano capolavoro di “Boxer”, subito seguita dalla liberatoria “Abel”, con Matt che si lascia prendere dalla trance e da piccoli ma percettibili fremiti mentre urla nel microfono. I suoni si fanno poi nuovamente sommessi e arrivano brani più raccolti, come l’incantevole “Daughters of the Soho Riots” e “Green Gloves”, con il suo finale funereo e luminoso al tempo stesso.
Dopo un’ora e mezza il set finisce e i National salutano e ringraziano amici vecchi e nuovi fra il pubblico elettrizzato, fra cui qualcuno che ha prestato a Bryce Dessner i biglietti della metropolitana. Davvero non sono dei dandy, questi qua. E non è un male, soprattutto quando la musica è così dannatamente buona.
(Stefano Folegati)
28 novembre 2007