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E’ arrivato un po’ così “Oblivion With Bells”, quasi inaspettato. Eppure sono già passati cinque anni da “A Hundred Days Off” e sembra strano non vivere, questa volta, la nuova uscita degli Underworld come un evento. Ripercorrendo la storia di Hyde e Smith non si può fare altro che rendersi conto di come la loro opera sia stata negli anni capace di esercitare qualcosa di più di una influenza decisiva sul vasto panorama della musica elettronica.
Volendo essere parsimoniosi potremmo parlare di due capolavori assoluti nella loro discografia, “Dubnobasswithmyheadman” e “Beaucoup Fish”, senza contare il successo planetario di un pezzo come “Born Slippy”. Se questi sono i termini con cui paragonare l’attualità possiamo sistemare “Oblivion With Bells” piuttosto lontano dagli album appena ricordati.
Definitivamente abbandonate le pulsioni più sfacciatamente trance, ci troviamo di fronte ad un lavoro che cerca una improbabile e difficilmente individuabile dimensione pop. Soprattutto perché il pop per gli Underworld non può che essere rappresentato da tracce come “Dark & Long”, “Jumbo”, “Cowgirl”, “Two Months Off” e la già citata “Born Slippy”.
L’inizio appare peraltro buono: “Crocodile” è qualcosa che profuma di irrequietezza chimica, trattiene ancora in sé un po’ di sporcizia dei ’90, si erge sulle solite luminose aperture ed è guarnita con l’inconfondibile vocoder. “Beautiful Burnout”, in otto minuti, fa quasi gridare al capolavoro. Vive, come tanti altri brani degli Underworld, della costante tensione tra ripetizione alienate e umanità vocoderizzata, cifra stilistica di tutta la loro produzione.
In “Holding The Moth” è il suono di un piano a mantenerci in vita, mentre tutto intorno si sviluppano ossessioni dal sapore metallico, pensieri confusi e stordimento. E’ “To Heal” lo spartiacque, il confine tra gli Underworld che conoscevamo e che ci avevano resi dipendenti e quelli un po’ meno sorprendenti di “Oblivion With Bells”. Proseguendo, da “Ring Road” in poi, si fa francamente fatica a riconoscere la mano dell’autore. Le aspettative elevate, inevitabili in questi casi, risiedono nello spessore del nome e (scusatemi se sono ripetitivo), di conseguenza, nei trascorsi tali da non permettere nemmeno una traccia poco sopra la mediocrità. Questo perché i “ricamini” elettronici intrisi di acerba IDM (“Glam Bucket”) possono anche avere un certo valore se escono dalla mano di un ventenne qualsiasi, ma, certamente, non se sono opera di chi detta legge da una quindicina di anni. Lo stesso può valere per “Boy, Boy, Boy”, una ballatina che strizza l’occhio ad un ipotetico e nemmeno troppo motivato ascoltatore pop-rock, magari ben impressionato dagli ultimi Unkle e deciso ad allargare la panoramica dei propri consumi musicali. “Faxed Invitation” non alza certamente il livello di attenzione, mentre la chiusura è fin troppo morbida con “Good Morning Cockerel” ed il sinuoso giro di basso accompagnato dai vocalizzi spezzati di “Best Mamgu Ever”.
Chissà se potrà mai ricapitarci di essere avvolti una sera d’autunno dalla forza dì un pezzo che abbia la stessa intensità di “Cups” e di essere tanto coinvolti da fermare l’auto per poter vivere quei minuti con il dovuto trasporto. Per ripetere un’esperienza del genere potrebbe valere la pena di aspettare ancora. Per adesso salviamo il salvabile in un album che deve essere considerato solamente come un approdo di passaggio.