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Potrebbe essere l’album della definitiva consacrazione mondiale (e forse sarebbe ora) questo “Down Below It’s Chaos” degli americani Kinski. Il quartetto di Seattle, capitanato da Chris Martin (da non confondere con l’omonimo cantante dei Coldplay) approda infatti in questi giorni al suo settimo lavoro in studio, il terzo targato Sub Pop, dopo anni di intensa attività musicale, soprattutto concertistica, che ha visto la band accompagnare in giro per il mondo complessi del calibro di Mission Of Burma, Comets On Fire, Oneida, Mono, Acid Mother Temple, Black Mountain e, più recentemente, Tool (per altro tutti facilmente percepibili nella grana di influenze della musica dei nostri). Prodotto da Randall Dunn (Earth, Sun o))), Boris) nel suo Aleph Studio di Seattle, l’album testimonia la costanze evoluzione di una ricerca volta a innestare su trame di heavy rock psichedelico (dai forti riverberi sabbathiani) le istanze avanguardistiche di un approccio sempre molto libero e apertamente sperimentale.
Interminabili colate chitarristiche vanno così a stratificarsi le une sulle altre, componendo e plasmando al calore del loro furore psichedelico la roccia pastosa di composizioni che sanno fluttuare in un limbo liquido e mesmerizzante, oppure raffreddarsi in forme aguzze e taglienti. I pezzi più impressionanti sono forse quelli più lunghi, caratterizzati da una struttura più libera, vicinissimi nell’attitudine alla spirale infinita di una jam ubriaca. In particolare “Boy, Was I Mad”, uno dei pezzi senz’altro migliori, muove da eterei accordi che a poco a poco vanno diradandosi per lasciare emergere in tutta la sua maestosità un impervio continente di distorsioni e ipnotici vortici chitarristici, esplorati in tutte le loro numerose risonanze e sfumature astratte. C’è qualcosa di evidentemente post rock nel saturarsi ineluttabile di certe progressioni , unito però ad una tuonante visionarietà più psichedelica e sciamanica (a tratti molto sixties e californiana, lungo l’asse Grateful Dead – Quicksilver – 13th Floor Elevetors, giù giù fino allo Stoner e ai Queens Of The Stone Age, passando forse per i Blue Cheer), come è possibile notare nella torrenziale “Plan, Steal, Drive”, che si perde nell’incantata contemplazione di un oggetto di pura luce rivelata e se ne lascia poi inebriare attraverso movenze incontrollate e furibonde. Sulla stessa scia gran parte dei restanti sette pezzi e il termine “canzone” decade inesorabilmente nel tentare di descriverli, trattasi infatti di un flusso quasi senza cesure o interruzioni e quindi non memorizzabile, difficilmente imprigionabile nell’ordine rigorosamente logico e consequenziale delle parole, ogni attraversamento offre stimoli sensibilmente diversi e si organizza in trame e concrezioni imprevedibili.
Da notare piuttosto la presenza, invero abbastanza sorprendente, di ben tre pezzi cantati, forse un po’ meno evocativi, il più interessante dei quali è forse “Passwords & Alcohol”, che segna un significativo (per quanto minimo) avvicinamento a sentieri più convenzionali, rielaborati comunque all’interno di un’ottica fortemente personale e disturbata. La band comunque tramortisce forse di più quando tende e deforma ai limiti della distrofia le fibre della propria musica nel tentativo di irretire ed esprimere l’incommensurabile (la conclusiva “Silent Biker Type”, dall’alto dei suoi nove minuti e passa, si avvicina molto ad un approccio di questo tipo).
Per concludere: se i Battles nel loro conclamato full lenght di qualche mese fa hanno esposto con implacabile rigore algebrico i dettami pitagorici del loro cabalistico math rock, questi Kinski decidono invece di incarnare fino all’estremo sacrifico di sé le istanze di una musica che più orfica e inarrestabilmente eraclitea (nel senso più ampio della massima “Tutto scorre”) non si potrebbe davvero immaginare.