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Gliela si vuole perdonare un po’ di logorrea al buon Celestini? Si consideri che, oltre ad essere uno dei pochi comunisti veri ad essere rimasti sulla piazza e in piazza, ha anche il non trascurabile merito di aver fatto del gioco di parole un mestiere. Un mestiere onesto.
Sante o eretiche, sacre o profane che siano, lui le piglia e le lega in una serie di stupefacenti funambolismi verbali e concettuali, un insieme di reazioni a catena. Per chi lavora in questo modo la verbosità si chiama “deformazione professionale”.
Sotto il profilo squisitamente musicale, invece, “Parole Sante” mostra uno strumentario folk timido e piuttosto stringato. E’ un album, questo, che ricorda le uscite de “I Dischi del Sole”, quando dell’alta fedeltà all’Ideale e della bassa fedeltà tecnologica si faceva questione di virtù più che di necessità.
Prendiamolo così, allora, questo suo exploit discografico: come il lavoro di un cantastorie, più che di un musicista, di un professionista della parola giocata che trova nella canzone nient’altro che un nuovo, stimolante modo di dirci la sua.
Quando non si fa prendere la mano dal suo nuovo giocattolo, tentando la carta enfatica del ritornello accorato, o schierando i “Noi” dell’appartenenza contro gli altrettanto indistinti “Voi” della retorica, la musica gli è di grande aiuto nel dare ritmo e linfa nuova alle sue parole e nel sistemare secondo altra metrica le proprie considerazioni su questo brutto mondo.
E’ il De Andrè doloroso e sarcastico de “La Domenica delle Salme” o “La ballata degli impiccati” a venire in mente, prima ancora di quello rosso e militante del “Bombarolo”: e già che i morti è bene “ricordarli vivi”, dice lui, lo sguardo cinico-sensibile del Faber è applicato con successo alle brutture nuove di zecca di un secolo che puzza di già visto. E così anche gli auspici non possono che restare speranzosamente gli stessi: riscatto, giustizia proletaria, presa di coscienza, Ri-vo-lu-zio-ne, perdio! Sembrerà datato forse, ma sarebbe interessante che parole (e magari canzoni) come queste tornassero a rotolare fuori dagli amplificatori delle Manifestazioni e dei Cortei politici: perché se davvero “il popolo è un bambino” questo è il momento di insegnargli di nuovo a pensare.