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È talmente facile e giornalisticamente scontato parlare male degli Styles (anche e soprattutto in virtù di quel singolaccio galeotto in compagnia di J Ax che nessuno ha mai digerito), che verrebbe quasi voglia di essergli amici per amore delle cause perse. E la sorpresa è che in fondo non sarebbe nemmeno così difficile, visto che il loro album di debutto non è poi, a conti fatti, così ferocemente sgradevole o posticcio come era lecito attendersi, viste le sue poco incoraggianti premesse. Che poi, a voler analizzare lucidamente la situazione non si fatica ad ammettere che il famigerato “Più stile” ha fatto più bene ad un redivivo relitto degli anni ‘90 ai suoi minimi storici come J Ax (forse la ragazza l’aveva menato troppo, magari mentre si ingozzava di spaghetti funky, chissà se arriverà al 2030…) che all’anonimo gruppetto che vellicava le chitarre e intonava i coretti nell’irresistibile ritornello, ovvero gli Styles, per l’appunto.
Senza poi contare che rimane insoluto il dilemma fondamentale, ovvero: perché mai io, adolescente medio del terzo millennio con striscianti propensioni fighette e vaghe pretese alternative, calzante Van’s quadrettate e sgargianti completini Atticus, dovrei preferire gli Stlyles da Como quando ho a disposizione gruppi con maggiori credenziali pubblicitarie e il vantaggio di un patinato esotismo esterofilo come Hives, Jet o Fall Out Boy? Gli Styles decidono infatti di buttarsi in un panorama già affollatissimo e vorticante di proposte musicali molto, troppo simili alla loro e nel tuffarsi in siffatto mare magnum fanno affidamento su una lingua, l’inglese, che certo non aiuta o incrementa le loro possibilità di concreto sfondamento. Prima o poi, come giustamente faceva notare il collega Bardelli qualche recensione fa a proposito dei JoyCut, bisognerà interrogarsi su questo malsano costume delle bands italiche di ricorrere sistematicamente ai testi in inglese, rosicchiando così l’intimità di un rapporto sempre più incrinato e disamorato con l’unico pubblico verosimilmente possibile per il rock italiano, ovvero gli italiani stessi, un po’ come se tutti gli scrittori di gialli della penisola decidessero di scrivere i loro romanzi in inglese, ambientandoli poi tutti tra Chicago e Detroit (cosa che poi in un certa misura accade anche, perché la realtà, come vuole il luogo comune, supera sempre l’arida fantasia di uno scribacchino musicale telematico in canna). E così gli Styles finiscono con l’essere l’ennesima escrescenza di questa globalizzazione uniformante delle lingua e degli stili, confezionando un prodotto (non per niente nel booklet sono contenute dettagliate istruzioni per scaricarsi suonerie realtone/polifoniche e fiammanti sfondi wallpaper, da far rabbrividire l’intransigente sociologo di scuola francofortese rintanato in ognuno di noi) che potrebbe essere stato realizzato indifferentemente a Birmingham come a Seattle e che risulta gradevole come una puntata in replica di “Ugly Betty” e promiscuo di riferimenti musicali e citazioni come la sceneggiatura media di un episodio di “Beautifull”.
Gli Styles con questa storia dell’industria culturale ci sanno anche giocare e questo depone di certo a loro favore, vedi ad esempio il “You’re watching Trl!” che fa irruzione in “Mr.Bean Laden” (titolo da far ingelosire sua eminenza Eminem, non c’è che dire, che fa il paio con “NME is you”), attraverso un trucchetto metamusicale degno dei migliori Fabri Fibra e Caparezza (ma la nutrita combriccola Riotmaker su questo genere di cose è su un altro pianeta). Per non palare del perentorio titolo dell’album “You Love The Styles”, cui fa da adeguato complemento grafico l’immagine in copertina di un alieno invasore male in arnese (molto B movie anni ’50) che proietta un raggio ipnotizzatore da una pistola collegata ad un registratore (con tanto di minaccia di ammosciamento istantaneo della stessa pistola “…if you don’t love the styles” qualche paginetta più avanti). Insomma, sulla falsariga degli imitatissimi Franz Ferdinand, anche il trio comasco attinge a pieni mani dall’armamentario e dall’iconografia propagandistica di un immaginario regime totalitario da “1984” della società dei consumi, facendosi compiaciute beffe delle miserie e nobiltà di quell’apocalisse commerciale di cui gli stessi Styles, a loro modo, riempiono le rutilanti vetrine. Per il resto i nostri si barcamenano tra chitarrine infeltrite alla Strokes della tarda e spossata decadenza, altezza “Room On Fire” (“The Start”, giusto un intro), passaggi londinesi nel solco dei compari Libertines (o Babyshambles dir si voglia) come “Sex Beatles”, sculettamenti glam pop sbavati (“Glitter Hits”), ballate epiche e barocche di scuola Muse/Coldplay (“My Wilkommen Terrorist”, ma il ritornello sembra ritagliato dai Duran Duran), rimanendo sempre all’ombra refrigerante di un pop rock melodico di lignaggio punk che oscilla tra i Foo Fighters (“Compromise”) quando va bene, e i Nichelback o The Calling (ve li ricordate?) quando qualcosa non torna (“Real gold”).
Come dire… un bel blockbuster discografico (ben prodotto e curato in ogni dettaglio) di fabbricazione italiana che dal blockbuster medio eredita il ritmo incalzante e una bella fotografia sgargiante ma anche la totale prevedibilità della trama e una congenita mancanza di qualsivoglia forma di stile capace di impressionare o dare scandalo (come invece si avrebbe voluto). Disco panettone (che però non farà sfracelli al botteghino).