Share This Article
Quelle di Stephin Merritt non sono canzoni pop. Il suo è meta-pop, semmai: omaggio trasformato in arte, la storia della musica che va conosciuta per avere accesso a un livello superiore, nascosto dietro quelle note di zucchero.
Il gioco si ripete anche stavolta, cambia solo lo scenario sonoro: sono di scena le distorsioni, attorcigliate attorno a linee melodiche di semplicità e perfezione quasi imbarazzante. Ogni singolo strumento è stato registrato distorcendone i volumi, provando a trasformare fisicamente la purezza sonora in rumore; su questa bizzarra cacofonia melodica, l’unica cosa limpida è la voce di Stephin, chiamata a raccontare amori, disillusioni e sottili ironie con distacco da crooner.
Tutto questo ha un precedente evidente, e nemmeno l’autore si sogna di negarlo: “Psychocandy” risplende come un faro durante tutti i 38 minuti di questo “Distortion”. Il debutto dei Jesus And Mary Chain lo anticipa di 23 anni, e lo renderebbe perfino un po’ inutile, se dopo qualche ascolto non si iniziassero a notare piccoli particolari che emergono sul resto, come il ritmo zoppicante di “Zombie boy”, il dondolare pieno del basso sui sibili di “Three-way” o il canto sbronzo abbandonato sul vuoto di “Too drunk to dream”.
Però, nonostante tutto, siamo perplessi, e non capiamo perché ogni disco di Stephin Merritt sia automaticamente da idolatrare: d’accordo, sappiamo apprezzare l’ironia pop di un pezzo come “California girls”, che su una perfetta base Beach Boys stende un carico di sarcasmo diretto alle ragazze del titolo, ma l’approvazione viene meno davanti a un disco così tanto citazionista. Il problema è che, pur salvando testi e rifiniture sonore, sembra di essere davanti a una copia del vero, a un falso d’autore, a un “Psycho” (ancora!) rifatto fotogramma per fotogramma da Gus Van Sant.
Insomma, Merritt sarà anche un genio conclamato, ma questa volta avremmo gradito anche un disco, e non solo l’ennesimo saggio sulla propria cultura pop.