Share This Article
L’avevamo già detto, la parola chiave per il futuro della musica è una sola: contaminazione. Già l’anno passato Damon Albarn aveva capito tutto, andandosi a prendere Tony Allen per cercare insieme a lui e Paul Simonon (non per niente coartefice di un “Sandinista!” che fa quasi da spartiacque storico) il domani della musica tra le pieghe di un Africa che alla musica moderna ha in fondo dato i natali. Il risultato è stato un disco cosmopolita, babelico, poliglotta e intimamente globalizzato come una strada di Camdem Town (o di qualsiasi quartiere di qualsiasi città in cui abitiamo e viviamo). Peccato che pochi (del tutto a sorpresa tra l’altro) se ne siano accorti. Non sorprende allora più di tanto che dopo il più o meno recente exploit di gruppi (tutti newyorchesi e non per caso) come Yeasayer, Tv On The Radio e Dirty Projectors, arrivino ora a far parlare di sé questi Vampire Weekend. Che, detto per inciso, sono la nuova sensazione dei blog musicali di mezzo mondo, ma non hanno quasi niente della cosiddetta “next big thing” di tendenza.
Il giovanissimo quartetto americano, formatosi tra le aule della Columbia University e poi svezzato nel fertile sottobosco newyorchese, cita infatti tra le proprie influenze nomi quasi impensabili oggi come Paul Simon (soprattutto quello di “Graceland”), Peter Gabriel, il David Byrne (in combutta con Brian Eno) di “My Life in the bush of ghosts”, Fela Kuti e King Sunny Ade. Avete sentito bene, di Smiths, Fall e soprattutto Joy Division, nessun traccia. Poi si ascolta… ed effettivamente è così! Tessuti e geometrie percussive dal retrogusto etiopico (il singolo “Mansard Roof”), chitarrine sgranocchiose intrise di un candore afrobeat piacevolissimo (“A-Punk”, Police che più Police non si potrebbe), coretti irridenti e capricciosi alla Osibisa (“One” o la programmatica “Cape Code Kwassa Kwassa”), inserti caraibici e, all’occorrenza, qualche morbido massaggio di scuola dub. Il tutto senza dimenticare o disconoscere la propria appartenenza irriducibilmente occidentale, visibile (e a tratti esaltata nel confronto con elementi sonori ad essa così lontani) soprattutto nel garbato melodismo di certe soluzioni compositive, che sembrano rimandare alle laboriose botteghe art pop di Prefab Sprout, XTC o Elvis Costello.
Qualcuno ha osservato che l’Africa di questi Vampire Weekend è a conti fatti un continente (per non dire un luogo comune) che esiste quasi unicamente nello spazio immaginario delle cartine geografiche appese nelle camerette di quattro studentelli imberbi, con le camicie a righe ben stirate e i pantaloni color crema. Mi permetto di dissentire: la musica proposta da questo come da tanti altri gruppi non è un safari antropologico o il souvenir sbiadito di un turismo sterilmente cartolinesco, quanto piuttosto il prodotto di una condizione di melting pot culturale perpetua, che in misure diverse appartiene a ciascuno di noi, ogni giorno di più. Un musica che ha quindi qualcosa di interessante da raccontarci sul nostro presente e, forse, sul nostro futuro. Essendo ormai inutilizzabile il termine “world”, risultando troppo riduttivo quello di “afro rock”, l’unica parola utile a inquadrare efficacemente queste nuove tendenze musicali in atto sembra essere forse “global” rock ed è tutto dire.
Se poi qualche indie amatore sulla spinta dell’entusiasmo si andasse a sentire i dischi di Ali Farka Tourè, Tinariwen o Orchestra Baobab, non sarebbe certo un grosso danno, anzi. Ad ogni modo resta sul tavolo il fatto incontestabile dell’ennesima rivincita (forse la più significativa) per una lingua e una civiltà musicale, quella africana, che è alla radice del rock sin dall’inizio, se è vero, come ci hanno insegnato, che tutto è nato dai canti di libertà e disperazione di un popolo ridotto in schiavitù dai padri di chi oggi ne ascolta l’eco lontana nella cuffiette, senza saperlo.