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Quante volte capita di trovarsi davanti a un disco importante? Poche, pochissime ormai, sepolti come siamo da dischi pseudo-imperdibili che sbucano da ogni angolo. Bene, “Amen” è un disco importante, importantissimo, pur essendo pieno di difetti: è lungo, densissimo, discordante, zeppo di divagazioni strumentali, contorto e un attimo dopo vicinissimo a linee melodiche fin troppo semplici.
Eppure, è un disco che impossibile ignorare, per molti motivi: erano anni che una band di culto solidamente sotterraneo non arrivava alle (sì, mi rendo conto che suona snob) masse, almeno da quando i CSI non raggiunsero la cima delle classifiche con “Tabula rasa elettrificata”. Ma è il come i Baustelle abbiano raggiunto il gusto popolare a rendere prezioso “Amen”. Pensateci: non è paradossale che perfino la benemerita casalinga di Voghera possa ascoltare e canticchiare una canzone come “Charlie fa surf” tra gli scaffali di un supermercato, con quel ritornello assassino che parla di MDMA con cinica nonchalance? Eppure, sotto quella linea melodica assassina c’è un rimpiattino di citazioni che vanno dai Clash all’arte provocatoria di Maurizio Cattelan, e la vecchia estetica adolescente dei primi album dei Baustelle viene capovolta in un ritratto disperato, soffocato, senza speranza: “Cosa rimane di noi. Ragazzini e ragazzine. La domenica dentro le chiese ad ascoltare la parola di Dio. Il futuro era una nave tutta d’oro che noi pregavamo ci portasse via lontano”, canta Rachele in “L’aeroplano”, e non potrebbe essere più esplicita.
L’arte trabocca da ogni angolo di “Amen” (Baudelaire, Lee Hazelwood, telefilm e colonne sonore), ma ad arrivare addosso è il vuoto che ci siamo costruiti attorno, ma il tono distaccato con cui queste canzoni sono cantate (e la leggerezza delle musiche) rende tutto più violento: Nancy Sinatra a braccetto con gli attacchi di panico, Maurizio Cattelan e furiose e inutili ribellioni di massa, Joe D’Amato e il quadro tragico di immigrati pronti a sbranarsi tra loro (“Antropophagus”), la bossanova e il sesso da dark room. E su tutto, “Alfredo”, piccolo valzer che mette i brividi e non sai nemmeno perché: è la chiave di volta di tutto, la perdita dell’innocenza.
Più di un disco, “Amen” è un affresco sociale. Ed è l’opera di una band che, dopo anni di culto, arriva alla notorietà vera. Ed è un album che vuole essere opera d’arte, fatta di pop estetizzato, col gusto sottile di indottrinare i non iniziati. Un momento: e se questo disco fosse – con tutto il dovuto rispetto – “La voce del padrone” dei nostri anni?