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In qualche cantone dell’attuale Medioevo musical-creativo c’è qualcuno che trova il coraggio di sbrogliarsi da tutte le inibizioni e si prende la libertà di suonare finalmente “scandaloso”: in questo paesaggio di industrie morenti, discografici piangenti e musiche anestetizzanti gli Old Time Relijun, ad esempio, hanno trovato il giusto sfondo per la loro trilogia del Lume Smarrito.
Per la terza e conclusiva ricorrenza decidono di festeggiare a dovere la Crisi della Catarsi, e anche in questo caso c’è da scommettere che si tratterà di celebrazioni di carattere tribale e dall’elevato tasso alcolico.
Per chi già conosce la loro scellerata sarabanda di schiamazzi non c’è molto di nuovo da sapere se non che, disco dopo disco, si fa sempre più chiaro il senso di “tradizione” che gli Old Time Relijun hanno forte, per quanto si affannino a nasconderlo sotto il tappeto: Arrington de Dyoniso e sodali sono solo gli ultimi nati di un Albero Genealogico che affonda le radici nei furiosi be-bop degli anni quaranta, sale per tutte le contorsioni del free jazz, raggiunge le sei corde schizoidi di Howlin’ Wolf e percorrere per intero le discografie dei suoi legittimi eredi, Frank Zappa e Captain Beefheart in testa, arrivando anche a contagiare la prime prove degli Stooges (che al protopunk pelle e ossa di “Fun House” penseranno bene di accostare il sax alto di McKay ) e la new wave primordiale dei Pere Ubu. Rispetto ai capitoli precedenti, “Catharsis in Crisis” si distanzia dalle pesanti influenze blues e sposta il baricentro verso il teatrino osceno di Arrington de Dyoniso ma di certo non rinuncia a far affluire dentro sè un grammo per ognuno dei “precedenti storici” sopraelencati.
Durante l’ascolto qualcuno potrebbe altrettanto legittimamente scovare parentele disparate nella contemporaneità e dedurne una mappa che unisca il jazz core dei romanissimi Zu alle esplosioni sonore di Jon Spencer (New York City), passando per “Veleno Mortale”, un terrorifico divertissment nella nostra lingua che tanto ricorda il Patton italofono…
Se una topografia così sconclusionata nello spazio e nel tempo fosse plausibile, sarebbe perché la Religione dei Tempi Andati è – come si diceva – Tradizione, nel vero senso del termine: un suono, un trucco, una regola non scritta, una parola magica che si è tramandata di bocca in bocca nel corso degli anni e che pur non essendo mai finita nel rassicurante scaffale dei Grandi Classici del Rock per ovvie ragioni cacofoniche, è comunque riuscita ad essere traghettata all’oggi e a creare discepoli nei quattro angoli del mondo. Di tradizione orale si tratta, quindi non c’è la definitività del documento, non c’è scripta che “manga” o che tenga e di conseguenza anche il supporto-disco è destinato ad essere liquidato alla svelta: si prenda dunque “Catharsis In Crisis” o qualsiasi altra pubblicazione del genere come niente più che un canovaccio provvisorio, e si corra al palco più vicino per vedere la Tradizione in carne ed ossa tramandarsi dal vivo…