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Si potrebbe iniziare così: poteva andare peggio. Dopo un primo album tenuto insieme letteralmente con lo scotch, gonfio e tumefatto, registrato tra una clinica di riabilitazione e il dietro le quinte di qualche passerella di alta moda e dopo la tribolata pubblicazione del cosiddetto “Blinding Ep” (a sancire l’inizio del rapporto contrattuale con la major Parlophone) che pareva rilanciare le quotazioni e le ambizioni artistiche di un complesso dato ormai da molti per bollito, tornano i fantomatici Babyshambles, truppa riottosa e sbarellante di allegri rockettari in licenza agli ordini del sempre più stordito Pete Doherty. Tornano i Babyshambels e lo fanno con un album che invece di essere l’ultimo colpo di scalpello sulla lapide (artistica ma non solo) del Syd Vicious del ventunesimo secolo, apre scenari del tutto inediti per il futuro della band britannica. Con “Shotter’s Nation” i Babyshambles dimostrano infatti abbastanza credibilmente che dietro il fenomeno mediatico gonfiato dal mantice degli scandali e dei tabloid c’è una band vera, con una mente ancora viva e pulsante e qualche buona canzone da far ascoltare.
La scelta per il ruolo di produttore di una testa quadra come Stephen Street, il principale architetto e teorico del rock inglese degli ultimi vent’anni, ha permesso di riassorbire tutte le sbavature e le imprecisioni che avevano reso fastidiosamente approssimativo e pressappochista il suono del disco precedente, conferendo alle nuove composizioni una maggiore perizia ortografica e una potenza di suono più poderosa e compatta, dal respiro più fisico e ansimante (a fronte del rachitismo denutrito e sfiatato del precedente “Down In Albion”), a tratti paragonabile all’intensità di un live. È stato così grattato via qualche strato pesante di ruggine e, non senza qualche sussulto di assestamento, la macchina compositiva del gruppo (che mai ha suonato così coeso e perfettamente sincronizzato in ogni suo componente) si è lentamente rimessa in moto e ha iniziato a macinare canzoni. Ne esce fuori un lavoro che ci restituisce un Doherty nel complesso ancora piuttosto discontinuo e altalenante ma capace in alcuni momenti ispirati di sfiorare la freschezza e la verve comunicativa delle prime cose dei compianti Libertines (altezza “Up The Bracket”, per intenderci). Godibili ad esempio dinoccolate marcette mod intrise di sixties sound e punk lunatico come “There She Goes”, “Carry On Up The Morning ” o il singolo “Delivery”. A brillare è soprattutto la classicità di un suono intrinsecamente e inguaribilmente “brit” che alla stregua di un testimone generazionale si tramanda di gruppo in gruppo nel volgere del tempo, dai Jam agli Smiths fino ai Supergrass, rendendo ancora oggi possibile e intatta la magia di pezzi come “Deft Left Hand” e “Unbilo”.
Per il resto si può parlare di un disco che tende a riazzerare per l’ennesima volta il groviglio di errori e insanabili contraddizioni che fino ad oggi hanno caratterizzato il personaggio pubblico di Pete Doherty, gettando un salvagente (in grado di stare a galla) ad un autore di talento che sembrava ormai irrecuperabile. La speranza è che riesca ad approfittarne. Le ultime apparizioni live, in cui la band ha dimostrato di saper tenere il palco per più di un’ora senza ricorrere a biechi trucchi di truce avanspettacolo, sembrano fornire ulteriori rassicurazioni. Bisognerà capire se è poi veramente questo ciò che il pubblico vuole dai Babyshambles…