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«Lo so che non dovrebbe piacermi questa canzone, però mi piace…». Colta la citazione? Era il modo in cui Marie La Salle, la folksinger inventata da Nick Hornby per il suo “Alta fedeltà”, presentava la sua cover di “Baby I love your way” di Peter Frampton. E la canzone risultava stranamente bella, nonostante Rob pensasse che Dio avrebbe potuto colpirlo «con qualcosa di anche solo moderatamente orribile: che so, un vecchio pezzo di Diana Ross, o un Elton John d’annata».
Che c’entra tutto questo con il nuovo album di Cristina Donà? Anche qui è presente Peter Frampton, e per quanto possiamo fare gli schizzinosi anche la sdolcinatissima “I’m in you”, presentata in punta di chitarra e con quella voce, diventa calda e accogliente.
Non serve certo un disco come “Piccola faccia”, del resto, per scoprire la maestria della Donà nel fare proprie canzoni altrui (magnifica qui “Sign your name”, in origine di Terence Trent D’Arby), né per innamorarsi di nuovo di tante piccole perle sparse in quattro album impeccabili.
Il punto è proprio qui: “Piccola faccia” non è un disco indirizzato ai vecchi fan, ma a chi ha imparato a conoscere Cristina Donà solo a partire dagli intarsi pop de “La quinta stagione”. Ai vecchi adepti, non resta che ammirare canzoni dalle facce nuove (gli accenni country-blues di “Piccola faccia”, i ricami della chitarra di Francesco Garolfi attorcigliati alla melodia de “L’aridità dell’aria”, una “Nel mio giardino” perfetta nella sua nudità acustica, il musical minimo di “Salti nell’aria”), che però non vincono quasi mai il confronto con gli originali.
Quelle che potevano essere versioni istintive e ridotte all’osso di canzoni bellissime, sono state trasformate dalla produzione di Peter Walsh in brani limpidi e pacificati, ma dalle quali manca quell’urgenza di dire che ha reso speciali tutti gli altri album di Cristina Donà.
E non per essere maligni, ma la vecchia leggenda indie della cattiva major di turno questa volta potrebbe essere vera: non riesco a spiegarmi altrimenti la scelta di mortificare una “Settembre” dal pianoforte tumultuoso con gli irritanti miagolii di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, né quella di pubblicare un nuovo album a soli sei mesi da “La quinta stagione”, quando la forza della Donà era sempre stata quella di centellinare l’ispirazione, pubblicando dischi mai meno che necessari, e belli. Ecco: “Piccola faccia” è bello, ma non è necessario. E non era mai successo prima.