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Hanno impiegato quattro anni a riprendersi dalle suggestioni d’amore de “L’irréparable”, i torinesi Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo. Ed ora è giunto il momento di un altro colore: non il rosso, ma il nero. Non l’amore, ma l’omicidio. Undici movimenti di un unico noir, dove i protagonisti spariscono in modo violento, l’uno dopo l’altro, vittime di un pericolo silenzioso che li colpisce all’improvviso. Suoni rimasti inerti, a covare all’improvviso tra bolle di Moog e brividi digitali, tra gentili ossessioni di chitarre e densità di bassi, strisciano fuori e colpiscono, dilaniando le canzoni e i suoi silenziosi personaggi.
I dischi del Gatto sono fatti di immagini sotto forma di suono, di melodie ossessive attorno cui gli strumenti dipingono con grazia sinistra. Ma questa volta, tutto si fa più concreto: “Disconoir” non è solo un disco, ma un’opera d’arte a cui contribuiscono i testi dello scrittore Dario Voltolini, i quadri di Mario Trucano, e gli undici micro-noir (visibili sul sito della band) che fanno da perfetto corrispettivo visivo alle canzoni.
Il recensore pigro scriverebbe allora che “Disconoir” sarebbe (è) una perfetta colonna sonora, ma avrebbe torto: l’equilibrio dei suoni è talmente perfetto da non aver bisogno di essere accompagnati da immagini. Il fatto che quell’ipotetico film esista, però, non fa che rendere il tutto ancora più bello, e completo.
Per una volta, allora, le immagini prendono corpo, a descrivere misteriosi omicidi: per ogni canzone, i collaboratori della band vengono uccisi, l’uno dopo l’altro, da una mano oscura che agisce secondo una sadica legge del contrappasso: Trucano viene affogato in una vasca identica a quelle che ospitano le sue performance pittoriche, Voltolini è soffocato, la voce eterea di Moltheni (ospite in “Stella che non dimentica”) è stroncata da una corda di nylon, Corrado Nuccini dei Giardini Di Mirò viene sacrificato a colpi di pistola (simulacro del post-rock come genere che ha ucciso se stesso).
Undici canzoni, undici scene differenti. Un cuore sorprendentemente elettrico (“Stella che non ricorda niente”, la cosa più bella che i Velvet abbiano mai fatto) e un finale malinconico, come se l’omicida dovesse fare i conti con se stesso dopo essere rimasto solo.