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Come si fa a guadagnare una popolarità da mainstream rock e mantenere allo stesso tempo una credibilità da scena alternativa? Per informazioni chiedere a Manuel Agnelli.
Il concerto di venerdì 2 maggio all’Estragon di Bologna, prima data del tour a supporto del nuovo album “I milanesi ammazzano il sabato”, dimostra che gli Afterhours sono una band assolutamente unica, capace di coniugare successo commerciale e integrità artistica in una ricetta che lo chef Manuel Agnelli ha messo a punto con maniacalità e costanza nei vent’anni di carriera del gruppo: un pizzico di Greg Dulli, una spruzzata di date in America, una manciata di zucchero nei singoli, un pugno di noise negli album, una sventagliata di novità album dopo album. Mescolare il tutto con un atteggiamento finto-sprezzante nei confronti di media e pubblico, ed ecco servite le “14 ricette di quotidiana macabra felicità”, come recita il sottotitolo del nuovo album.
Un album, l’ultimo, volutamente duro da digerire: “Faremo un sacco di canzoni nuove stasera, così vediamo se vi piacciono senza che abbiate letto le recensioni” incalza Agnelli dal palco, prima di lanciarsi in “Naufragio sull’isola del tesoro”, opening track sia del concerto bolognese sia del nuovo album. Le urla di un Estragon sold out salgono con il secondo brano, il singolo “È solo febbre” (“…se piacerà, ti piacerà…”) per esplodere con “Ballate per piccole iene”, primo motivo familiare della serata.
L’acustica non è un granché, e il concerto – dopo un inizio devastante – perde un poco di impatto, soprattutto sui pezzi nuovi e meno rodati (“Tutti gli uomini del Presidente” e, soprattutto, “Tarantella all’inazione” soffrono parecchio l’acustica impastata della sala), anche se la band è decisamente in ottima forma. Dopo poco più di un’ora, le luci si spengono e la band riappare sulla postazione dei dj, a metà sala, per una versione acustica di “Voglio una pelle splendida”: una mossa che ricorda molto il triplo palco che Ligabue si è regalato (pagandolo, grazie a Dio, molto caro…) al mega concerto del Campovolo nel 2005. Di nuovo sul main stage, la band si concede il pogo di “Male di miele” ed una splendida cover version di “For what it’s worth” dei Buffalo Springfield di Neil Young e Stephen Stills, prima di chiudere con “Bye bye Bombay” e “Quello che non c’è” nelle quali Manuel fa un passo indietro, lasciando che sia il numeroso pubblico ad occuparsi dei ritornelli.
Saluti. Luci. Partono i dj e la folla, pian piano, esce dall’Estragon.
Ed esce con l’impressione di essere stata testimone di un nuovo scatto di maturità nella band: l’ultimo album è sicuramente difficile, ma riesce nell’impresa di offrire qualcosa di nuovo nel sound e nell’ispirazione compositiva, pur mantenendo tutti i marchi di fabbrica Afterhours. E Agnelli conferma di essere il migliore equilibrista italiano, capace di camminare sempre sul filo tra una fama da mainstream e l’integrità artistica alternativa: in un Paese in cui i grandi del rock fanno il verso a se stessi ormai dal secolo scorso e la scena alternativa di solito è confinata ai piccoli club, quella compiuta dagli Afterhours è un’impresa da leggenda.
(Giampaolo Corradini)