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Mantenendo la solita tabella di marcia a dir poco invidiabile (sei lp in tredici anni, se si escludono i primi due della fase anglofona) la band di Manuel Agnelli arriva al cruciale appuntamento del primo disco sotto major.
“Era ora, finalmente ci si è accorti di loro.”
“Delusione. Si svenderanno anche loro. ”
“Sono già sdoganati, non cambierà nulla.”
“Peccato, la Mescal era un bel progetto, ma Manuel continuerà a essere Manuel”.
Qualche preoccupazione semmai poteva verosimilmente essere legata all’intermediario, per così dire, tra gli Afterhours e la major, la Casasonica di Casacci e dei Subsonica, etichetta la cui visibilità è decisamente proporzionale all’inutilità delle produzioni lanciate con un clamore anch’esso proporzionale. Fortunatamente il loro ingresso nella sedicente Factory torinese è relativo solo al management e all’organizzazione del tour, e il disco, un po’ come il precedente, si avvale di una co-produzione illustre, quella di John Parish (PJ Harvey, Eels, Sparklehorse). Ansie non del tutto infondate se si considera, al di là di quell’alone di intoccabilità spesso appiccicato al loro nome, che la band, dopo lo scioccante uno-due d’esordio, ha regalato due dischi belli – o brutti – a metà (“Non è per sempre”, “Quello che non c’è”) e un album ambizioso quanto stanco e povero di idee (“Ballate per piccole iene”).
Il primo estratto-myspace aveva effettivamente smentito ogni ansia. La coraggiosa “È solo febbre” rimette in luce la loro fascinazione per la prima psichedelia degli anni ’60 (che emerge più stereotipata ma con esiti tutt’altro che negativi anche in “Tarantella all’inazione”) tra controtempi, voce sospesa nel vuoto, violini ubriachi e coretti naif – si ascolti, o forse, meglio non ascoltare “I Am The Walrus” dei Beatles – per un incedere nel loro stile e una struttura originale e poco lineare. Per intenderci come nella fase Agnelli-Iriondo.
Non è l’unico episodio in cui in qualche modo Manuel fa revival degli Afterhours dello scorso decennio, o se preferite, secolo. Convincendo poco e niente nei brani più ruvidi e anni ’70 da “Neppure carne da cannone per dio” a “Pochi istanti nella lavatrice” (con gli Stooges rievocati non solo in quel sax molto “Funhouse”) passando per il banale giovanilismo al gusto di Pavement di “Tutto domani” (nonché mezzo plagio di “Trigger Cut/Wounded-Kit at: 17” degli stessi).
“Tutti gli uomini del presidente” dal canto suo becero si presenta come un pleonastico hard-rock che sfida i Verdena di “Muori delay” nel contest Miglior revisione italiana di “Out On The Tiles” dei Led Zeppelin, o per essere più 90s di “Spoonman” dei Soundgarden. Si è sempre riconosciuto ad Agnelli e soci il merito di accogliere certe sonorità rock ostiche se non estreme in melodie puramente italiche ma diventa difficile difendere una “È dura esser Silvan” che dà l’idea dei Queens Of The Stone Age che rileggono “Chi fermerà la musica” dei Pooh. Insomma l’operazione revival sa molto di manierismo, di esercizio di stile autoreferenziale che poco aggiunge al repertorio. Meglio la titletrack e “Musa di nessuno” (con i fiati di Gabrielli finalmente valore aggiunto e non fattore di confusione) in cui si respira l’atmosfera torbida e dolente di quelle ballad semi-acustiche che costituivano una delle anime fondamentali dei primi Afterhours.
Più consoni invece ai più recenti Afterhours, meno sperimentali o comunque più schietti, e per certi aspetti accomunabili alla tradizione pop-rock italiana, “Tema: la mia città”, il primo singolo ufficiale “Riprendere Berlino” e i due brani di apertura e chiusura. La prima oltre ad avere il testo migliore della raccolta è un vigoroso sfogo, molto coinvolgente e immediato, sulla città in qualche modo protagonista dell’album. A partire dal titolo modificato con gioco di parole del romanzo di Scerbanenco da cui è tratto uno di quei b-movie degli anni ’70 cari a Tarantino, “La morte risale a ieri sera”. “Riprendere Berlino” ha dalla sua quei tappeti sonori avvolgenti e corposi tipici degli ultimi due album scadendo in un ritornello un po’ facilone per i coretti quanto per la melodia che sa di già sentito, stesso discorso attribuibile a “Orchi e streghe sono soli” e al suo chorus troppo da beat italiano. Nell’introduttiva istantanea “Naufragio sull’isola del tesoro”, invece, con quell’anomalo dialogo tra un motivetto giocoso e scanzonato e una chitarra tagliente che pare esplodere ma non esplode, Manuel dà – se ce ne fosse bisogno – un saggio delle proprie doti vocali e una lezione di pop a connazionali come Le Vibrazioni o i Negramaro che pagherebbero per scrivere canzoni del genere.
Va ancora meglio quando provano a fare i Radiohead in “Dove si va da qui” uno dei quei brani in cui il piano va in una direzione, la voce in un’altra ed effetti, echi e rumori intermittenti rendono ancora più straniante e dissonante il panorama.
In definitiva, si sarà capito che rispetto al monocorde “Ballate per piccole iene” Manuel e colleghi sono effettivamente tornati a quella varietà compositiva che in qualche misura caratterizzava gli Afterhours. Ciò che manca, semmai, è quel fattore fondamentale che aveva lanciato gli Afterhours, quanto i Marlene Kuntz, come qualcosa di diverso nel panorama italiano, ovvero la capacità importare sonorità prima di loro insolite ed estranee al nostro paese in un contesto di canzoni in grado di lasciare il segno. Ne “I milanesi ammazzano il sabato” mancano in parte idee nuove, ma mancano quasi del tutto le canzoni.
Se i milanesi ammazzano al sabato perché negli altri giorni hanno da lavorare, gli Afterhours evidentemente ammazzano il sabato perché negli altri giorni hanno il tour, cosa che, almeno quella, da dieci anni a questa parte continua a riuscirgli bene.