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Prendete il diavolo della Tasmania, trapiantatelo nel corpo di un ragazzo nero di Eastflatboosh (Brooklyn, New York), dategli un bel po’ di talento, pensateci su, aggiungete ancora talento finchè la quantità non diventa debordante e francamente eccessiva, appoggiategli sotto al culo le basi dei producer più in voga della Grande Mela, lasciate che trascorrano diciassette anni di onorata e trionfale carriera e servite poi caldo, anzi bollente, anzi ustionante.
La bomba di energia in questione è esplosa a Milano, all’Alcatraz, giovedì 1 maggio, in occasione del concerto di Busta Rhymes. Le premesse non sono delle migliori: alle 19.30, cioè un’ora prima del presunto inizio, davanti al locale non c’è ancora nessuno e si respira tutto (specie monossido di carbonio) tranne che l’atmosfera delle grandi occasioni. Strano, ci troviamo a concordare io e il barista che mi ha appena servito la cena (un panino alla mortazza), che poi tra le altre cose mai mi sarei aspettato di parlare con un barista di un rapper americano (e delle aspettative che un concerto del genere crea, e del presunto effetto traino di MTV) proprio come si può parlare del derby o dell’ineluttabile scomparsa delle mezze stagioni. Probabilmente è perché c’è il ponte lungo e molta gente è andata al mare, mi trovo a ipotizzare più tardi insieme a un paio di bagarini, entrambi di pessimo umore ma fatalmente (e in maniera molto professionale) rassegnati alle fluttuazioni del mercato, e anche qui vale il discorso fatto per il barista in precedenza.
Fortunatamente non va come iniziavamo tutti a temere. La gente arriva, i cancelli si spalancano e il concerto può iniziare, anche se in leggero ritardo rispetto all’elvetica puntualità degli appuntamenti milanesi. Sarà perché non è previsto nessun gruppo spalla? E perché non è previsto nessun gruppo spalla? Perché mettono su musica rock? Non faranno mica entrare Busta Rhymes così a freddo, senza darci nemmeno la possibilità di fare un po’ di stretching al collo, vero?
A rispondere ai nostri interrogativi pensa direttamente Dj Scratchator, deejay di Busta Rhymes e di lungo corso: mezzora di selezione che attraversa trent’anni di successi hip hop di ogni tipo (anche se con una particolare predilezione per il lato club della faccenda) e prepara l’atmosfera per l’evento clou che tutti stiamo aspettando.
E all’apice dell’esaltazione arriva l’Acchiapparime, accompagnato dal fido scudiero Spliff Starr: l’alchimia tra i due è perfetta, il volume dei microfoni un po’meno e brucia (in parte) il primo pezzo, poi il fonico aggiusta tutto e si può continuare. Busta Rhymes si è tagliato la criniera di dreadlocks che lo ha accompagnato negli anni e che era diventata un po’ il suo marchio di fabbrica, ma l’effetto Sansone che temevo non si concretizza nemmeno per scherzo: Busta ha la faccia di gomma e sembra uscito da un fumetto, Spliff Starr ha gli occhi cinesi e sembra uscito da un coffee shop (del resto nomen omen ). La coppia è decisamente ben assortita. Busta Rhymes si agita e si muove e ride e fomenta il pubblico, Spliff Starr ha i tempi perfetti della spalla, l’aria sornione e sardonica di chi è lì per caso ma si trova perfettamente a suo agio, e sfodera una vis comica che supera la barriere linguistica. Insieme sono splendidi. E, durante i pezzi, estremamente professionali: le basi sono progettate per farti muovere il culo anche contro la tua volontà, le parole di Busta Rhymes corrono imbizzarrite tra un rullante e l’altro e Spliff ha il compito (tutt’altro che secondario) di stuccare i vuoti che ogni tanto Busta lascia, in modo da non interromperne il flow, fomentando il pubblico le rare volte che questo non esplode da solo. Se la folla è estremamente composita ( c’è di tutto: b-boy fanatici, tamarri di periferia, coppiette, trentenni con l’aria intellettuale, persino qualche modella…), è perché le frecce al’arco di Busta sono diverse: si va dall’ hardcore cazzone di “Woo-Hah” alla modaiola “Make it clap”, dall’incendiaria “Gimme some more” (che ha, tra le altre cose, uno dei video più belli che abbia mai visto) fino ai pezzi da struscio come “I know what you want”. E su quest’ultimo si apre uno dei siparietti più divertenti della serata: la parte del ritornello interpretata da Mariah Carey sarebbe affidata, nelle intenzioni di Busta Rhymes, alle fanciulle presenti fra il pubblico. Che, ovviamente, non si ricordano le parole. Busta allibisce, chiede un momento di silenzio e inizia una filippica sul fatto che quando le donne fanno qualcosa per i loro uomini e gli uomini si dimenticano, succede un pandemonio; per cui, nel momento in cui è lui a fare qualcosa per le sue donne, si comporta nello stesso modo, e proprio non accetta che le fans si dimentichino le parole di un pezzo scritto appositamente per loro. Difficile capire se Busta stia scherzando o meno, un po’ come quando supplica un paio di ladiez in prima fila di tastare le dimensioni del suo Johnson&Johnson; le ladiez grazie al cielo abbozzano e il tutto si conclude con una grassa risata collettiva. Ma se l’entertaining è leggero e scanzonato (o grossolano e triviale, scegliete voi), quando si tratta di sputare rime in un microfono si torna all’improvviso alla più completa serietà: a giustificare i 23 euro di biglietto e il folle costo delle consumazioni dell’Alcatraz potrebbe bastare la prima strofa di Break Ya Neck, una pioggia supersonica di sillabe latrate dal fenomeno senza perderne nemmeno una goccia, adrenalina acustica che manda in visibilio noi tutti sotto il palco e costringe il buon Scratchator a un doppio pull up. Al terzo tentativo Busta riesce ad arrivare al ponte e a chiudere il pezzo, si gode la meritata ovazione e di lì a poco il concerto è finito, Busta ringrazia Milàn (che pronuncia alla lombarda, inspiegabilmente) e ricorda che il suo disco uscirà il primo luglio, promette che ci rivedremo al più presto e alla fine se ne va, di ritorno con ogni probabilità in quel fumetto da cui è uscito per omaggiarci della sua presenza.
(Fabio Varini)