Share This Article
Torna Cesare Basile e ha ancora l’aria di chi arriva a festa finita e si rannicchia in un angolo per mettersi a fissare i coriandoli caduti a terra: al passaggio del Carro d’Arlecchino, questa volta il sostrato di elettricità si fa meno prepotente, fatte salve solo un paio di crudeli eccezioni ( “Canto dell’osso” e la medesima “Storia di Caino”) dall’irruenza rock notevole.
Rispuntano dalla soffitta il violino fiddle, l’armonica a bocca in copertina e un banjo, a voler recuperare i punti fermi di una grammatica country blues che costringerà proprio la chitarra a farsi un filo da parte: senza pacificarsi, per carità, chè le linee tracciate sono ancora notevolmente inquiete e frastagliate…solo le si è chiesto di defilarsi, di scegliere la discrezione acustica per lasciare il grosso della ribalta alla voce.
Una voce che torna a cantare di perdenti e sconfitte, di mondi squallidi, di Buone Novelle e dei loro apocrifi protagonisti concedendosi di parlare indifferentemente il linguaggio delle ‘radici’ americane o quello terraiolo di certa musica popolare del nostro Sud; una voce indolente per testi dolorosi, una voce che, se una volta si ritrova ad un solo palmo d’efficacia da quella di un De Andrè o del Fossati più ermetico ( “Sul Mondo e sulle Luci”) la volta dopo non ha difetto o pregio che non sia quello di assomigliare fin troppo a se stessa.