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«Grazie sorella sconfitta, mi hai dato gli occhi e donata la voce». Una curiosa capacità divinatoria, quella di Massimo Zamboni, che in un verso tratto dal suo debutto solista di quattro anni fa aveva saputo prevedere ciò che sarebbe stato oggi. Nonostante una timidezza cronica è lui, questa volta, a prendere il microfono, a parlare e a cantare, spinto dall’urgenza di dire. C’è da raccontare il ritorno a Mostar, la complessità delle emozioni di rivedere luoghi e persone a distanza di dieci anni da quegli storici concerti dei Csi. E Zamboni lo fa, con un bellissimo documentario (“il tuffo della rondine”) e con un libro di riflessioni e testi, entrambi allegati al disco.
E poi, le canzoni. Quelle de “L’inerme è l’imbattibile” sono un tuffo nel passato: le chitarre disegnano paesaggi e stridono improvvise come nelle migliori pagine del capolavoro dei Csi, “Linea gotica”, una voce femminile purissima si intreccia ad una maschile poco educata (non più Ginevra Di Marco e Ferretti, ma Zamboni e la cantante lirica Marina Parente), le ritmiche si fanno sinuose. E, su tutto, le parole: poesie dense, alla ricerca della purezza anche in un mare di dolore come quello causato dalla guerra.
Tutto pieno di buone intenzioni, ma quasi tutto è un naufragio. Perché non bastano le buone intenzioni, né il mischiare testimonianze personali ed esplicite ispirazioni letterarie (Primo Levi, Marjane Satrapi, Giuseppe Ungaretti, Art Spiegelman), né l’affinare sempre più la propria poetica, a fare de “L’inerme è l’imbattibile” un buon disco.
E’ un ascolto difficile, e non tanto per le tematiche affrontate, quanto proprio perché le musiche non hanno nulla da dire: eccettuate le vampe di “Quasi tutti” e la tensione emozionante di “Don’t forget”, il resto scorre lento e greve. E finisce per far suonare il tutto pretenzioso, anche se questo era probabilmente l’unica cosa che il suo creatore voleva evitare.
L’irritazione per questi suoni – chitarre dilatate da colonna sonora, ritmiche vagamente trip-hop, voce approssimativa – finisce per influenzare pesantemente il giudizio finale: qui c’era l’urgenza di dire, più che di suonare. Ed è perfettamente legittimo, ma proprio per questo non era necessario trasformare questa urgenza in un disco.