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Un prato tagliato impeccabilmente. Poco più in là, probabilmente, un lago immobile e sereno. Più o meno vicini a un tavolo, poco meno di una decina di commensali al brunch domenicale. Sono tutti ben vestiti, un look sportivo e leggermente retrò. Indovineresti facilmente i loro lavori da ricercatore universitario. E quello spilungone con gli occhiali, là in fondo, avrà sicuramente cosparso la sua villetta di macchinari elettronici vintage.
Bene, ora che avete davanti la scena, non è difficile immaginare la musica dei No Kids: “Come into my house” ne è la colonna sonora perfetta. Gentile, un profluvio di fiati e archi da film d’altri tempi, le voci sottili e i ritmi in controtempo. Pop, perfetto e disimpegnato, ma consapevole della sua intelligenza. E con una passione nascosta, quella per l’ r’n’b, che fa capolino un po’ ovunque, dal titolo dell’album (una citazione di Queen Latifah) all’ondeggiante ritmo di pezzi come “The beaches all closed”.
In più momenti il ricordo va alla geniale follia degli Yo La Tengo ispirati dalla black music (quelli dell’ultimo “I’m not afraid of you and I will beat your ass”), ma anche a Jens Lekman alle prese con una cover di Arthur Russell (“Four freshmen…” sembra davvero provenire dalle scalette dell’ultimo tour del poeta di Kortedala…). E, in un profluvio di pianoforti e fagotti, violini e percussioni metalliche, nessuno strumento sgomita per farsi notare, come si conviene a un easy listening educato e colto, che ha i suoi apici in “Old iron gate” (partiture per quintetto d’ottoni portati alle Hawaii) e nella scanzonata “For Halloween”.
Legittimo che tutto questo possa sembrare un po’ troppo stilizzato (come lo sono gli uomini del dipinto di Alex Katz in copertina dell’album), ma nell’oceano mediocre dell’indie-pop contemporaneo “Come into my house” è un disco a sé, capace di spiazzare con gentilezza e di ricordare come la musica pop possa anche essere fatta con un importante bagaglio culturale alle spalle.