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Si potrebbe iniziare la recensione dell’esordio discografico del romano Davide Combusti (in arte semplicemente The Niro, non c’è che dire, bella trovata) proponendo una sorta di proporzione: The Niro sta a Jeff Buckley come Mario Biondi sta a Barry White. La somiglianza con il compianto cantautore statunitense, a tratti francamente impressionante, trae origine soprattutto da una voce angelica e al tempo stesso tagliente che irrompe in tutta la sua estensione già dalle primissime note dell’iniziale “You Think You Are”: sfido chiunque a non cogliere un legame di profonda consonanza che si spinge, nel fortunatissimo singolo (attualmente in classifica, difficile da credere) “Liar”, fino al punto estremo di una vera e propria (e forse irreversibile) identità. Ma forse stiamo già sminuendo, perché The Niro è senza dubbio uno dei casi musicali dell’anno, un nome sbucato fuori praticamente dal nulla, e che pure può già vantare numerosi passaggi radiofonici e televisivi, il supporto di una major dal nome conclamato (la Universal) che decide di tornare a scommettere su un progetto italiano serio, con concrete prospettive di crescita e diffusione anche in chiave internazionale. Il giovane cantautore romano ha già aperto infatti per Amy Winehouse, Deep Purple e Sondre Lerche, e può contare su discreto seguito anche oltre i confini patri. Miracoli di MySpace senza dubbio, ma è forse la prima volta che un fenomeno del genere viene prodotto dal mercato discografico italiano senza venire subìto attraverso una “colonizzazione” esterna (ad opera soprattutto dei blog e delle riviste di area anglosassone).
Non è il caso allora di fare troppo gli schizzinosi, anche perché il disco in questione, una volta appurato che l’innovazione a tutti i costi non passa da queste parti, si lascia ascoltare con un certo, non trascurabile, piacere. La prima cosa che colpisce è forse il fatto che l’album sia nel complesso un lavoro a tinte un po’ fosche, con una predilezione particolare per situazioni malinconiche e ombrose, tarato su tempi mediamente dilatati e su una respirazione abbastanza lenta e riflessiva. Molta introspezione e un certo esistenzialismo di ritorno che fa venire in mente Nick Drake, Elliot Smith, Coldplay, primi Radiohead ma anche (considerati i natali) Francesco De Gregori o Riccardo Senigallia. Il disco ad ogni modo, almeno fino a “Just For A Bit”, tiene discretamente, poi si perde un po’ e inizia a ripetersi, ma ad un esordio lo si può anche perdonare. La produzione è chiaramente curatissima e il suono è limpido e scintillante, e non troverete quel fastidioso retrogusto Ligabue/VascoRossi uniformante di certe incisioni rock mainstream italiane. Per sintetizzare si può parlare di una collezione di ballads acustiche in cui a farla da padrone è soprattutto una vocalità preziosa che svolge un buon 60% del lavoro, quasi sempre sostenuta dall’immancabile accompagnamento di una chitarra acustica ben suonata. Anche gli arrangiamenti non sono malvagi comunque. La scelta dell’inglese appare ormai come un male necessario e quindi per certi versi accettabile, ma la lingua risulta un po’ artefatta e spesso (forse volutamente) troppo generica. Tra i pezzi migliori vanno senz’altro inseriti “About love And Indifference”, “So Different” e “Ordinary Man”.
Per ora forse non è lecito chiedere a questo giovane autore molto più di quello che è già riuscito a fare e che non è poco, tuttavia il suo futuro come musicista si giocherà senza dubbio nella sua abilità nel sapersi smarcare da un riferimento a Jeff Buckley per ora decisamente troppo schiacciante (e che finisce con il lavorare a sfavore dello stesso The Niro, mettendone di continuo in evidenza la minore incisività rispetto all’onnipotenza del Maestro). La stoffa per uscire vincitori da questa sfida di certo non manca, questo va detto. Ne sentiremo parlare.