Share This Article
Bello il titolo che questa band (un quartetto) di Milano ha scelto per il suo full lenght di debutto, marchiato Angle Records. Esponenti di spicco di quella nuova ondata di bands indie germogliate nel sottobosco milanese all’ombra di locali come Plastic o Racket (si pesi ai Merci Miss Monroe o, volendo, anche agli Hot Gossip), questi Pink Rays assecondano e perseguono una vocazione marcatamente internazionale per la propria musica. Il che vuol dire cantato in inglese e un impasto sonoro il più possibile aderente a quelli che a conti fatti sono gli stilemi e le procedure compositive dominanti dell’attuale mercato rock/alternativo angloamericano. Che poi tanto attuale non è: con gli Strokes riciclati come sottofondo impercettibile per intermezzi pubblicitari dei più infimi programmi pomeridiani di Mtv, i Libertines dissolti (e Doherty più presente sulla terza pagina di Novella 2000 che su Rolling Stone), il disco dei Pink Rays ha tutto il sapore di quello che resta aggrappato alla mente quando un’utopia generazionale/musicale si è ormai sgonfiata in un pallido nulla di fatto nel volgere di qualche semestre.
Messe da parte queste considerazioni e accertato che in ambito rock siamo ormai da anni entrati nella fase cosiddetta “interpretativa” (l’intuizione è di Martin Rev dei Suicide), in base alla quale i formati quelli sono e quelli rimangono (e questo a discapito della vocazione più “performativa” della musica, aggiungiamo noi), non si può certo chiedere ai Pink Rays di reinventare le regole del gioco. The songs remain (dangerously) the same, insomma. Nel caso specifico un punk rock dal cuore melodico (a tratti sinceramente godibile e sempre suonato e prodotto con estrema perizia), che, se voleva dare voce ad una certa frustrazione metropolitana da sabato sera qualunque e ad uno strisciante desiderio di vitalità selvaggia in opposizione ad essa, in più di un episodio riesce piuttosto bene nel suo intento. Dopo una prima scheggia decisamente troppo sheffieldiana (dove Sheffield fa rima con Artic Monkeys), “Never Kiss A Drunk Girl” (sottoscrivo, purtroppo), per fortuna nostra (e loro) i Pink Rays introducono significative variazioni di registro (le Scimmie ritorneranno a berciare con le loro chitarrine verso la fine in “Slackers Are Not Dead”).
Stacchi di chitarra rudemente post-punk in odore di Bloc Party (“Say No”, “Modern Life”, a tratti calligrafica), ballate nella migliore tradizione libertina (“Letter To my Friend”, uno dei momenti migliori), tonnellate di rimandi agli Strokes (“Prefer Another me” è mimetismo puro), ma anche un legame meno evidente con hardcore e posthardcore americano ed affini (ascoltate la foga inacidita di “Song Against G.” o “Rules Of Fools”), a cavallo tra Germs, Fugazi, Husker Du, Pixies giù giù fino alla contemporaneità di un gruppo a cui nessuno dedica lo straccio di una riga ma che è vivo e vegeto, abita a New York proprio come Interpol e Strokes e dischi belli ne scrive e confeziona ininterrottamente da dieci anni, i Les Savy Fav (per chi fosse interessato a rimediare la Wichita ha da poco ristampato la fondamentale retrospettiva di singoli “Inches”).
A tutto questo va aggiunto il fatto non secondario che il gruppo acciuffa quasi sempre il giro melodico giusto e può contare su un cantante di sicuro talento e dalla pronuncia credibile (l’italo svedese Enrico De Candia). Immaginare ribalte internazionali risulta alquanto arduo (sarebbe come voler vendere il ghiaccio agli eschimesi o la sabbia ai beduini), ma forse non è nemmeno così importante badare a questi aspetti, meglio è immergersi nell’adesso irriducibile del no future pop odierno senza tante preoccupazioni di sorta, godendosela finchè dura…