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Lontana dai riflettori, la Seahorse Recordings, giovane etichetta indipendente fondata da Paolo Messere – poliedrico musicista e produttore, nonché ex-membro degli Ulan Bator – continua a sfornare un nome dopo l’altro. Nomi rigorosamente italiani per sonorità poco inclini al compromesso con lo showbiz e più in generale con il resto dell’indie italico. Un arco di generi che spazia dalle saturazioni spigolose vicine al post-rock (Murnau, Fish Of April, A New Damage) alle saturazioni più avvolgenti eredi del dream-pop e dello shoegaze (Unmade Bed) al revival della wave nel suo lato più crepuscolare (più dark nei Vivianne Viveur, più songwriter nei suoi Blessed Child Opera) passando per sonorità pop che non rinunciano a intuizioni sui generis (El Ghor, Kiddycar, Maisie).
Rientrano in questa sotterranea scuderia i SO!, da Montevarchi all’esordio sulla lunga distanza con “Stolen Time”. Trentadue minuti per otto tracce coraggiosamente strumentali che a un primo impatto sembrano seguire l’onda lunga di quella generazione di Lousville, Kentucky (Slint, Gastr Del Sol, June Of ’44, Codeine) che provò a dare nuova linfa a un rock spossato e svuotato dagli anni ’80. Ma, apparenze a parte, non è tutto così semplice a dirsi.
Basta mettere su la prorompente “I Hate Candies” per capire che si fa sul serio. Chitarre incalzanti, ritmica incessante, pause brucianti e una cinica ripartenza che spazza una voce distorta e distante che cerca di riemergere dal magma infuocato innescato dai poderosi intrecci di basso e chitarre. Voce che in qualche misura riesce ad emergere meglio nel parlato di “It’s Hard To Think” sputando una fredda alienazione che richiama inevitabilmente le atmosfere di “Spiderland”. Ma di spazio ce n’è poco tra i perfetti incastri sostenuti dall’ottima base ritmica (“Under The King’s Control”) in una cruda claustrofobia metropolitana tra giri di chitarra luciferini e cambi di tempo fortunatamente mai spropositati che finiscono per richiamare i June Of ‘44 piuttosto che Tool, Isis e derivati.
Migliorano gli esiti quando da architetture squadrate e imponenti i SO! si lasciano sedurre da inquietanti discese verso il nulla come nello straniante crescendo rumoroso alla Mogwai di “Love For Sunday Driver”. Ancora meglio quando si alzano i bpm avvicinandosi a quelle sonorità figlie dell’hardcore/punk di transizione corposo quanto consapevole (Fugazi, Shellac). La spietata “Puccettino!”, al di là del titolo un po’ strambo, ci riesce senza lungaggini condensando tutte le sue idee in tre minuti e poco più.
Laddove le atmosfere si fanno più introspettive inevitabilmente i SO! richiamano le intuizioni più evidentemente post-rock di un’altra band del Kentucky, i Tortoise, ma con un piglio decisamente più ruvido e aggressivo (rispetto ad esempio ai Giardini Di Mirò) nelle vulcaniche esplosioni rumorose. Roba da via italiana ai Mogwai, insomma. Da “Leg Godt” a “Experimental Man With A Horse”, il brano più intenso della raccolta, con le chitarre perse in suoi vortici di echi e riverberi che si inseguono e si fondono in stridori figli dello shoegaze.
Nell’apocalissi industriale di “Mammoth’s Step” un synth prova timidamente a emergere nei granitici muri di suono costruiti dal quartetto lasciando poi spazio a un dissonante sax – che si fa largo per poi defilarsi in un finale straripante – che introduce un’interessante variazione al tema.
Variazioni al tema che certamente si dovranno far sentire nell’evoluzione di questa promettente band toscana. Il loro genere pur percorso relativamente poco da artisti nostrani è effettivamente un genere che anche all’estero sembra aver detto tutto ciò che aveva da dire. E l’affare è reso più complesso dalla scelta di concentrarsi su sessioni strumentali. Con un paio di intuizioni tra virgolette melodiche o comunque in grado di dare uno stacco in interpretazioni che già oggi, a partire dalla durata e dalla struttura dei brani, evidenziano la volontà di provare a non seguire determinati schemi del post-rock e del post-core, i SO! potrebbero rappresentare una bella novità in questo stanco panorama italiano.