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E’ sempre bello ritrovare i colori di Barcelona e notare di come niente sia cambiato nonostante tutto sia in continua evoluzione. Le strade, gli odori, gli umori della gente. Ogni anno che passa, la capitale della Cataluña si trasforma sempre di più nella città europea per antonomasia e il festival di Primavera che da anni la rende anche uno dei fari più importanti per la musica indipendente, è solo uno dei punti di forza.
Il programma di quest’anno si discosta da quelli degli anni scorso per la ricerca di un pubblico di nicchia. Mi si potrà obiettare che l’avventore medio del festival è già l’esponente di una nicchia, ma rispetto agli anni scorsi c’è molta meno gente e si nota un processo di fidelizzazione in costante evoluzione (e la partnership con ATP lo dimostra pienamente). Lo zoccolo degli appassionati è durissimo – noi siamo qui da tre anni e di certo non ci fermeremo a questa edizione, ad esempio – e ogni anno ci sono motivi per gioire nonostante in molti vengano a Barcelona a prescindere dai nomi.
Ora, i nomi. La scelta artistica della nicchia di quest’anno ha portato sulle rive del Mediterraneo meno superstar (a naso potrei indicare solo Portishead, Public Enemy e De La Soul), ma la scelta di gruppi era ampia e succulenta pur vagando tra il culto assoluto (Devo, Buffalo Tom) e la completa ignoranza (Felice Brothers, chi erano costoro?). Ma andiamo con ordine.
Giovedì 29 Maggio
Il forum. Il mare. La gente in coda per entrare. Tutto così familiare e bellissimo. Ci siamo anche quest’anno e siamo pronti per ricominciare. Le vittime sacrificali, quest’anno, sono gli MGMT, pompatissimo gruppo hyper-pop. Al sottoscritto non piacciono. I singoli, anzi, mi danno un grande senso di fastidio e non mi aspetto niente dal live che si dimostra moscio oltre ogni dire. Ulteriore fastidio. Probabilmente ci avevo visto giusto e il discorso è chiuso ancora prima di iniziare. Esagerazione mediatica. Molto meglio Phil Elverum indaffarato con un doppio set equamente diviso tra Mount Eerie e Microphones. Grandi canzoni e grande folk per appassionati. C’è tempo di una piccola pausa prima di andare a sentire gli Enon sul nuovo palco “Vice Jagermeister”, posizionato a bordo mare dopo una scalinata di tibetana lunghezza (farla alle cinque del mattino ti toglie ogni residuo di vita). I newyorchesi ci sanno fare, ma un mix non all’altezza affossa le chitarre limitando la botta alla granitica sezione ritmica. Occasione persa. Ci pensano i Notwist a tirar fuori un gran bel set, nonostante la presenza scenica propria degli ingegneri tedeschi. La IDM-band sa anche fare grande pop lanciandosi in schitarrate che non mi sarei mai immaginato. “The Devil, You + Me” è una bella sorpresa se pensiamo che l’ambiente ha da tempo bollato l’indietronica come “merda” e che molti di noi non si aspettavano poi molto. La gente comincia a spazientirsi: vogliono tutti i Portishead. Io e la mia compagnia di flippati headbangers, invece, ci lanciamo nel viaggio andato a male degli Eric’s Trip. Alfieri canadesi della Grunge Generation dimenticati pure da quella Sub Pop che aveva pubblicato i dischi. Chi si sarebbe filato una loro reunion? Beh, ovviamente in Spagna sono in molti e il loro set è seguito da un bel po’ di flippati. Peccato che la band non suoni assieme da un sacco di tempo e sia slegata come non mai. Facessero a gara a suonare più alto sarebbe stato per lo meno divertente, ma così, invece, si è persa una buona occasione per accendere il fuoco del culto. Sarà per un’altra volta. Forse.
Mentre la macchina infernale di Beth Gibbons sta scaldando i motori, l’anima pop di Kalporz (Daniele Boselli and me) scende le scale buddiste per aggrapparsi alla speranza chitarristica dei British Sea Power. La band di Brighton mette su un buon set bilanciato tra i pezzi del nuovo “Do You Like Rock Music” e qualche ritorno al passato di “The Decline Of…” e “Open Season”. Da sempre grandi mattatori, gli inglesi non si risparmiano nemmeno stavolta compreso lo stage diving di Noble. Ben fatto e per leggere dei Public Enemy vi rimando ad altri siti internet. Anche perché ora vi aspettate di leggere qualcosa dei Portishead, finalmente. Peccato solo che il vostro affezionatissimo sia, nell’intimo, un grande tamarro, e che dopo i primi tre pezzi dell’attesissimo concerto si sia lasciato trascinare dal tribale e sconquassante casino che i Boris stavano costruendo poco più in là. I giapponesi – aiutati dalla chitarra dei Ghost e Damon & Naomi Michio Kurihara – si sono resi protagonisti di un grandissimo concerto che ha spazzato ogni rammarico per essermi definitivamente perso i Portishead. Primitivo, esagerato, distorto, loud. I giapponesi rappresentano la nuova frontiera della musica bruciata ma tutto questo ha un che di sublime. L’esatto opposto di quella cover band degli Housemartins mascherata da band originale (i Voxtrot) e dell’ennesimo abbaglio di manierismo indie (Vampire Weekend). Avendo ormai raggiunto l’apice della serata, taccio sul set dei Prinzhorn Dance School (non è roba per me, ma chi ama i Fall e la no wave ci sguazza anche coi piedi) e su quella immonda disco-tamarrata di Berlin Battery. Chi me l’ha fatto fare? Beh, in qualche modo bisognava arrivare alle 5 di mattino per far aprire la metropolitana, no?
Venerdì 30 Maggio
La mia anima garage mi obbliga a presentarmi al Forum con una rossa maglietta dei Sonics. Del resto, oggi è il loro giorno. Nessuno si aspetta il concerto della vita, ma quando sento il soundcheck (praticamente un concerto in anteprima e saremo stati in dieci lì ad applaudire e scherzare con quelli che potrebbero essere effettivamente essere nostri nonni) mi rendo conto che forse la band è in forma. Manca ancora molto, il tempo per vedersi un po’ di Russian Red (una Pj Harvey sui generis) e un po’ di Trad Gras och Stenar (tre vecchietti scandinavi che negli anni settanta facevano un prog molto assimilabile al post-rock. Sono i veri eroi del festival anche se non mi è venuta voglia di ascoltarli) e a rockeggiare con il rock sudista e neilyounghiano di MV & EE with the Golden Road (featuring J Mascis alla seconda batteria). Roba per palati fini, un po’ come Nick Lowe, cantautore britannico che nel tempo è passato dal power-pop alla Elvis Costello alla torch song di Roy Orbison. Grandissima classe al servizio di piccole grandi canzoni di culto. Il primo grande apice della serata, però, arriva coi Felice Brothers. Una band americana diretta da tre fratelli che non si sono resi conto di non essere più nel 1975. Grandissimo folk, intenso come solo degli americani con una vera storia alle spalle sanno essere e coinvolgente grazie anche a canzoni bellissime. Qualcuno suggerisce un nome: Bob Dylan and the Band e non ci va molto lontano, ma io direi anche Pogues (forse perché saliti sul palco molto ubriachi). Vado sempre fuori di testa per cose del genere e credo di aver trovato i miei nuovi eroi.
Arriva, infinite, il momento dei Sonics. E questa volta non faccio scherzi. Resto e mi godo il concerto perché, come ha detto un mio amico: « Sono vent’anni che mi sento “Psycho” e “Strychnine” fatte da un marea di cazzoni. Per una volta che posso sentirmele veramente figurati se mi muovo! ». E in effetti ne vale la pena. Vecchi sì, ma tenuti bene. Sono in forma e si divertono anche se non sono più punk come nel 1965 (assomigliano ad una pub rock band, invero). Tirano il giusto e divertono un bel migliaio abbondante di appassionati ambosesso. Ma la time-table è tiranna e il concerto di Bob Mould ha la precedenza su tutto. Chi pensa agli Husker Du non rimarrà deluso. Il vecchio Bob fa un concerto come va fatto, tirando tutto al massimo e vaffanculo al resto. Tra Sugar, produzione solista e grandi classici (per dire, ha chiuso con una “New Day Rising” che ha mandato all’ospedale il batterista. E stiamo parlando di Brendan Canty dei Fugazi), Bob sa quello che deve fare e lo fa maledettamente bene. Uno dei più grandi concerti che mi sia capitato di vedere. Chitarre sparate al massimo, grande ritmo, grande pathos e grande tutto. Niente da dire. Finisse il festival dopo questo concerto potrei tornare a casa soddisfatto. Peccato che subito dopo mi tocchi una grande e dolorosa delusione: Sebadoh. Li aspettavo con aspettative ma sul palco sono degli incredibili scassamorroni. L’apoteosi dello scazzo e della sfiga. Non mi resta che godermi i dischi e aspettare il riscatto di Lou Barlow coi Dinosaur Jr. domani. Resta una minima speranza coi Polvo che, certo, non deludono, ma mi sembrano troppo cervellotici e attenti a non sbagliare niente. Si lasciassero andare sarebbero molto meglio, ma la bravura non si discute. Per il resto, dopo aver visto Bob Mould forse sono talmente appagato che non mi interessa più niente del resto: Cat Power? The Go! Team? Sti gran cazzi. Giusto lo shoegaze assassino degli A Place To Bury Strangers è riuscito a coinvolgermi un minimo. Per il resto calma piatta. The silence between us, come direbbe il buon vecchio Bob.
Sabato 31 Maggio
Giornata conclusiva. Ovviamente è tutto passato troppo in fretta. Ma il Sabato è da sempre il giorno con più concerti da vedere. Si parte con Scout Niblett e Mary Weiss. La prima, disperata come non mai, fa sentire quando dietro le sue canzoni ci sia una sorta di energia nichilista da presa male. Umorale. Non come la signora del pop che la segue. Miss Weiss, infatti, deve la sua gloria alla grande esperienza sixties con le Shangri-Las. Performance divertente ed appassionata che fa da antipasto ad una grande serata. Segue la doppietta indie-folk Okkervil River-Silver Jews. I primi ci danno dentro come navigati performer. Grandi canzoni (comprese quelle dell’ultimo disco a breve su queste stesse pagine) e grande intensità. La band di Will Sheff sta guadagnando sempre più spessore e stima crescente nell’ambiente e devo dire che gli elogi sono meritatissimi. Un po’ come quelli dedicati al principe dei dimenticati: David Berman. Mr. Silver Jews mette su un grande concerto alla faccia degli scettici e a conferma della bontà delle sue nuove canzoni. Tra il pubblico, appare anche Stephen Malkmus che forse non si immaginava di non essere riconosciuto da nessuno. Del resto, si mimetizza perfettamente nell’humus indie che egli stesso ha voluto creare coi Pavement (e ci proverà, qualche ora dopo, a riproporre i suoi giorni di gloria grazie anche a Janet Weiss delle Sleater-Kinney alla batteria, ma ora Malkmus sembra più Santana che il principe dei Geek e questo non gioca certo a suo favore). Detto questo, dopo i dimenticati arriva anche il tempo dei loser duri a morire. I Buffalo Tom. Chi mi conosce sa quanto ami la band di Bill Janovitz e di come aspettassi questo momento. Peccato però che la sfiga bastarda abbia deciso di giocare un brutto tiro ai Nostri. Non c’è n-e-s-s-u-n-o (beh, oddio, forse duecento persone, ma se consideriamo che suonavano sul secondo palco per grandezza capite la beffa) e, per di più, i tecnici del suono hanno deciso di prendersi una pausa facendoci ascoltare il concerto dagli amplificatori della band. Risultato? Non si sente un cazzo. Manca la botta e non basta la passione di Janovitz e le sue canzone. Col cuore rotto e le pive nel sacco, me ne vado via triste e sconsolato riponendo le mie ultime speranze nei Dinosaur Jr. Anche perché di Malkmus ho già parlato e i Kinski mi hanno solo parzialmente consolato con la loro psichedelia sabbathiana sparata a mille. Certo, possiamo star qui a parlare ancora di come Rufus Wainwright sappia tenere da solo il timone di un grande concerto (ma ne ho già parlato in occasione di Benicassim 2006 ed è fondamentalmente la stessa roba), ma ruberei spazio ai Mission of Burma. Perché se è vero che ormai aspetto solo più J Mascis, devo riconoscere che Boston ha ritrovato per l’ennesima volta un motivo per farsi amare. Questi tre punk della prima ora tirano giù un inferno di distorsioni e di canzoni sparate e matematiche. Alla fine si torna sempre a sperare nel rock’n’roll e in questo i Burmas sono tra i più grandi di tutti. Assoluti eroi di culto oltre che grandissimo allenamento per le orecchie in vista dei Dinosaur, ormai grande certezza.
Infatti Mascis, Barlow e Murph non deludono. Scatenano da subito un pogo infernale (che preoccupa non poco la security) e le canzoni, sparate a livelli un po’ meno alti del solito, ormai vanno in automatico. Oltre ai classici (“Little Fury Thing” e una delle “Freak Scene” più devastanti di tutti i tempi), anche i brani dell’ultimo disco rendono alla grande (boato per “Been There All The Time”). Ma la vera sorpresa sono i singoli degli anni ’90 senza Barlow: oltre alla già eseguita “The Wagon”, arrivano anche “Out There” e “Feel The Pain”. Pura estasi. Il modo migliore per concludere il festival anche se si segnalano ottimi momenti con Shellac e Les Savy Fav mentre i Tindersticks e gli Animal Collective ammorbano oltre ogni dire (soprattutto gli ultimi, bella delusione per essere il set di commiato dell’edizione). Insomma. Quello che rimarrà nella mia memoria di questo 2008 saranno le distorsioni deliranti dei Boris e le canzoni dei Buffalo Tom (nonostante tutto), saranno le mitragliate dei Mission of Burma e il divertimento dei British Sea Power, saranno le certezze dei Dinosaur Jr. e la commozione di Bob Mould, saranno le pepite garage dei Sonics e la sfiga sempiterna degli Eric’s Trip. A conti fatti, ne vale sempre la pena e quando ti siedi sull’aereo mentre la voce della hostess ti informa cosa fare e cosa non fare in caso di pericolo, pensi più che altro alla nostalgia canaglia e di come tutto sia durato pochissimo.