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La Scozia ha saputo regalare nel tempo emozioni un po’ a tutti. Ognuno ha il suo gruppo feticcio scozzese (chi i Mogwai, chi i Belle And Sebastian, chi ancora i Teenage Fanclub) e la cosa tra alti e bassi continua ancora oggi, nell’era dei Fratellis e dei Franz Ferdinand, che non saranno esattamente la stessa cosa (e di sicuro non la sono), ma che ancora sanno a tratti restituirci una Glasgow definitivamente uscita dalla sbronza post-Trainspotting (che poi era ambientato a Edimburgo) e capace di aggregare talenti musicali di un certo interesse e spessore, assai spesso legati in quelle fittissime reti di collaborazioni e amicizie interne che oggi fanno la fortuna del mercato canadese. I Correcto da questo punto di vista non fanno eccezione se è vero che dietro di essi si cela tale Danny Saunders, coadiuvato dal batterista dei Franz Ferdinand e dal bassista dei Royal We, altra effimera gloria locale (il gruppo ha già pensato bene di sciogliersi, dopo appena uno striminzito ep di debutto).
Il disco nel complesso appassiona anche perché questo Saunders pare di primo acchito un cane pazzo del tutto fuori contesto: una voce ricalcata sulle deformità stridule e smozzicanti di Johnny Rotten, un chitarrismo nervoso e scartavetrante all’incrocio di Pete Townshend e Wild Billy Childish e un amore sconfinato per il garage beat psichedelico dei medi sessanta riletto con attitudine punk fracassona. Non saranno in molti ad occuparsi di questo album, ma i momenti di sincero piacere abbondano: il dittico d’apertura “Inuit”,”Do It Better” non lascia scampo, i riff mitragliano nella migliore tradizione (anti) thatcheriana lungo l’asse Jam / Buzzcocks / Damned / Clash, mentre la voce si strangola in deliri e derive psicoverbali senza tracciato definito. “Joni” è pura swingin’ London di prima grandezza, tra Kinks e Pretty Things, con un Paul Weller immaginario maestro di cerimonia alla chitarra. Ma il disco sa vivere all’occorrenza anche di parentesi più smorzate in cui si fa più evidente la maestria scritturale del gruppo, come nella bolle di psichedelia ciondolante in odore di Syd Barrett / primi T-Rex di “Save Your Sorrow” o nel folk educato di “Walk To Town”. “No Order Under 30” ci spiega perché una persona sotto i trent’anni non può dirsi davvero interessante, “Here It Comes” è invece un altro esercizio di revisionismo sublime all’insegna di un primitivo garage punk assillante e assolutamente fuori di senno, come è giusto che sia.
Insomma, davvero un bel sentire, imperdibile per tutti quelli che hanno una union jack tatuata (anzi incisa) sul cuore e ritengono che gli anni decisivi nella storia del rock siano solo e soltanto due: 1967 e 1977. Da quelle parti, in Scozia, sanno come passare gli inverni con profitto.