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Il primo trauma è all’arrivo: uno dà un’occhiata annoiata ai manifesti e scopre che i Battles faranno da spalla ai Gossip. Ma che mondo è questo? Iniziano a montare nel cervello i primi improperi nei confronti del solito sindaco ladro, accompagnati da una riflessione amara sull’inesorabile decadenza delle sinistre europee e delle feste dell’unità in generale (che slogan è “Ciao bella”? A questo punto sarebbe meglio un discreto “Popolo, avanti”, tanto ormai quello che rimane di una tradizione gloriosa è soltanto il rituale svuotato di una tazzina di tè bevuta alle cinque nella solitudine di una terrazza borghese). Poi ci si rende conto che queste sono considerazioni da vecchio recalcitrante e inacidito e ci si consola con un kebab (freddo, come il piatto in cui va servita la vendetta).
I Battles arrivano sul palco con puntualità e rigore e, senza teatralizzare troppo, iniziano subito a macinare la malta inossidabile del loro suono a presa rapida. Il batterista (in polo abbottonata fino all’ultimo bottone, bermuda e calzini tirati su fin quasi alle ginocchia, un vero impiegato della distruzione ritmica) è al centro del palco, quasi a rimarcare la radice indissolubilmente ritmico-sussultoria della musica dei Battles, con lo strumento ridotto a poche essenziali componenti e un piatto enorme che si inerpica come un cobra a due metri dal suolo. Lo circondano un simpatico bassista con la faccia (e la riga) da cecchino bolscevico durante la battaglia di Stalingrado e le due chitarre, una delle quali nelle esperte mani del figlio del compositore jazz Tony Braxton (i cultori di avanguardia ne sapranno qualcosa). A parte il batterista, tutti i restanti membri della band, oltre allo strumento di rispettiva competenza (suonato con l’allacciatura “alta”, quasi ascellare, da puristi della tecnica, come argutamente nota l’amico Gabriele), si divertiranno per tutta l’esibizione a smanopolare sinth, tastierine niente male, microfoni trattati, loop, pedaliere assortite e avveniristici marchingegni strozzati in un groviglio di cavetti colorati. Partono le varie “Tonto”, “Rainbow” e “Atlas” e un’illuminazione si fa largo nella testa: un gruppo “prog” che suona musica techno mediante l’ausilio di una strumentazione prevalentemente “elettrica”. Le loro composizioni sembrano degli enormi e labirintici algoritmi che crescono di complessità ad ogni nuovo passaggio, delle funzioni di calcolo integrale apparentemente senza fine. Per questi ragazzi l’infinito più che al mare sembra infatti somigliare ad una sclerotizzante (e ipnotica) ripetizione del medesimo, più lobotomia che elettrochoc, a conti fatti. E questo, per certi versi, può anche essere considerato il loro limite, nel senso che il delirio privo di controllo è stato sfiorato solo in alcuni brevi frangenti, e il gruppo non si è mai perso del tutto nei diagrammi impazziti di un’improvvisazione senza confini (come invece accreditate testimonianze riferiscono a proposito di passate esibizioni della band). Certo, la collocazione a ridosso dei Gossip non può aver giovato in questa direzione, e, congedandosi con “Race: in”, la band ha staccato gli amplificatori dopo cinquanta minuti scarsi di show, nel malcontento urlante delle inappagate prime file.
Dopo una manciata di minuti arriva sulla scena l’attesa Beth Ditto, con al seguito i suoi Gossip (da notare una batterista rudimentale più tatuata di un tatuatore da sottoscala che non usa aghi disinfettati, un bassista-facchino che per ampi stralci del concerto si è defilato ai bordi del palco (?!) lasciando sguarnita una già di per sé vulnerabile sezione ritmica, e un chitarrista-tastierista con baffo, occhiali dalla montatura e lenti spesse, e capello da mohicano, molto gay newyorchese, epoca Andy Warhol). Nel frattempo ci si accorge delle numerose coppie di lesbiche accorse non per caso all’appuntamento (non dimentichiamoci infatti che la Ditto prima ancora che una cantante è un’icona “pop” del nostro tempo) e l’esibizione parte con un accenno di cover di “Psychokiller” dei Talking Heads (pare che anche i Ricchi e Poveri l’abbiano riproposta all’ultima sagra del miele di castagna di Strangolagalli). Intendiamoci il gruppo non è affatto malvagio, il suono ha una sua potenza, la buona e simpatica Beth si prodiga alquanto, saltellando, calandosi (materialmente) nel pubblico, scimmiottando Rihanna, producendosi in arditi vocalizzi degni di un’Aretha, denotando un’agilità insospettabile, lasciando intravedere l’anima di una libellula leggiadra racchiusa dentro l’involucro esteriore di un’anaconda imponente. Ma il repertorio è troppo risicato, a parte quelle tre-quattro canzoni (tra cui “Standing In The Way Of Control”, quello sì un capolavoro) sembra di stare a sentire i soliti ricami punk-funk con attitudine dancereccia che da anni ormai ingombrano le nostre fantasie (tra l’altro il disco che il gruppo porta in giro è letteralmente vecchio di due anni). Come se i Fugazi (anzi no, facciamo le Bikini Kill) si mettessero a coverizzare ESG e Gang Of Four, niente di più, niente di meno. Ma il pubblico (ad occhio, almeno duemila persone) non è affatto di questo parere, ballano anche i vecchi in maniche di camicia (giuro!) e forse qualcuno pensa dentro di sé che il Partito Democratico alla fine ce la farà perché la Vita è Bella. E forse hanno ragione, viene da pensare, mentre il piede accenna a tradimento un passo di danza involontario. Non è tempo per noi, e forse non lo sarà mai…