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Continuo ad ascoltare questi mille denti di squalo, e l’unica espressione che insiste a bussarmi mente è drama queen. Shara Worden è sì regina del melodramma, ma non come se fosse una diva capace di incantare teatri affollati: assomiglia piuttosto a una donna con una voce appassionata eppure distante, che canta rannicchiata in un angolo della scena, davanti a una platea vuota.
Le sue canzoni, colme di archi e di voci fluttuanti, non si lasciano mai catturare davvero: sanno abbagliarti, nel preciso istante in cui le ascolti, per poi sparire, e aspettarti di nuovo nascoste nel buio.
Nate assieme alle canzoni del bellissimo “Bring me the workhorse”, quelle di “A thousand shark’s teeth” rappresentano il lato più classicheggiante del talento di My Brightest Diamond. Il rock ossuto delle prime, qui, rimane solo nella splendida “Inside a boy” d’apertura: apertura di fiaba, un basso indomabile, elettricità sospesa fino al grido finale, liberatorio, potente. Una meraviglia, che trascolora subito nei terreni più eterei nella foresta di suoni brillanti di “The ice & the storm”, per poi farsi avvolgere definitivamente dagli archi.
Ed è a quel punto che tutto diventa volutamente schivo, difficile, poco aperto: affascinante, certo, ma inavvicinabile. Anche nei momenti dove una chitarra torna a farsi sentire – nel soul oscuro di “From the top of the world”, o nell’ossessività stritolante e impalpabile di “To Pluto’s moon” – l’orchestrazione sembra soffocare tutto.
Non riesci ad avvicinarlo, questo disco. E si rimane lì, a sentirsi quasi in colpa perché non si sa apprezzare fino in fondo un album che sa far convivere Maurice Ravél (il testo di “Black & Costaud”) con i sample oscuri di Tricky, ardite architetture d’archi con una voce che sembra letteralmente volare.
“A thousand shark’s teeth” ha la bellezza di un’opera d’arte in un museo. Ti può commuovere fino alle lacrime, ma ti lascia frustrato: non riuscirai mai a toccarla, a farla davvero tua, tutta quella bellezza.