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Prima di addentarci nell’analisi del nuovo attesissimo parto discografico di casa Bloc Party, un’indispensabile premessa: la nostra recensione riguarderà il disco che dal 21 agosto scorso è scaricabile a cinque sterline (la modalità d’acquisto meno dispendiosa, ma non l’unica) dal sito della band londinese capitanata da Kele Okereke. Precisazione necessaria, visto che la tracklist del disco “fisico” (di imminente pubblicazione) non sarà, almeno a detta della band, perfettamente sovrapponibile alla versione digitale del medesimo. Complicazioni da arcobaleni sonori di radioheadiana memoria, non c’è che dire.
Prodotto dai fidi Paul Epworth e Jacknife Lee, questo nuovo “Intimacy” ha l’arduo compito di risollevare le quotazioni in ribasso del gruppo dopo l’esperienza dagli esiti decisamente fallimentari del kolossal concettual discografico “A Weekend In The City”, tanto magnificato dai seguaci di fede comprovata quanto preso a randellate e sberleffi da una critica famelica che non aspettava altro per avvalorare i propri sinistri teoremi sull’inconsistenza pseudo propagandistica del più giovane indie rock d’oltremanica. Il gruppo ad ogni modo tira dritto per la propria strada e procede in quel lavoro di progressiva “digitalizzazione” del suono, già in parte saggiato nel disco precedente. Le iniziali “Ares” e il singolo “Mercury” sono da questa prospettiva assai loquaci: ritmi fortemente scanditi dall’impronta marcatamente hip hop, come se gli Outkast si mettessero a scarabocchiare con pennarelli contraddittori (e in maniera tutt’altro che caricaturale) le partiture di Killing Joke e Nine Inch Nails, con frequenti inserti di fiati dal retrogusto jazzistico e una cornice frastagliata di vibrazioni robotiche e ticchettii da orologeria svizzera postmoderna assordante, in un tentativo forse non del tutto riuscito ma in una certa misura interessante di revisionismo del pop rock più consolidato alla luce di incursioni e assalti avanguardistici musicalmente “rischiosi”, degni a tratti, nel loro approccio, di un Aphex Twin. Se sentite puzza di Radiohead le narici non vi ingannano perché la strada imboccata sembra proprio quella. A fronte di una “Halo” che tende infatti a rinvangare i soliti riff alla primi U2/medi Cure/ Joy Division di sempre, ci sono infatti in questo album pezzi come “Trojan Horse” che cercano di divincolarsi dai laccioli del solito e ritrito formato canzone attraverso mosse smarcanti che forse non danno (ancora) come risultato finale una forma completamente innovativa di quella stessa canzone (e del concetto di rock che essa si porta dentro), ma spargono qua e là strutture dall’evoluzione insolita e ibridi intriganti. Come a dire: non di sole adolescenze prolungate (fino a diventare fasulle) vive il mito del rock.
In “Signs” il gruppo sfiora, anzi si lascia sfiorare il palato da vaghe brezze lattescenti di indietronica stellare che non ci si sorprenderebbe di godere in dischi di Notwist o Junior Boys (lo stesso accade anche in “Biko”, con esiti forse meno persuasivi). “Zephyrus” sembra invece la recente “15 Steps” di Yorke e soci, riarrangiata dai Tv On The Radio, per un coro gospel di astronauti fluttuanti che intonano una messa di carmina burana (vi giuro che non sto scherzando!) in qualche ramo poco battuto di una galassia minore non ancora scoperta. Bene anche “Better Than Even”, con quel suono svuotato e galleggiante da discoteca in orario di chiusura, con fischio perenne nelle orecchie ferite e un’alba piovigginosa e solitaria che si schiude sulle miserie di un’umanità indifesa (e viene in mente l’ultima spettacolosa fatica del misterico Burial, riletta in chiave elettro-pop melodica), mentre la conclusiva “Ion Square” appare troppo rimasticata e raccogliticcia.
Insomma, non è un brutto sentire, questo “Intimacy”, non smuove le montagne certo, ma non fa nemmeno montare il mascarpone alle ginocchia (come pure poteva accadere). A questo punto bisognerà vedere se il gruppo avrà voglia (e soprattutto interesse) a giocarsi bene le ottime carte che ha appena pescato dal mazzo (e che non torneranno una terza volta).