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Un mio compagno del liceo, terrorizzato dal professore di latino, mi disse che per affrontarlo doveva immaginarselo sulla tazza del cesso. Provateci, funziona con chiunque, anche col vostro capo. E allora vi chiedo: come ve l’immaginate il cantante di una leggenda del grindcore in fila ai gabinetti? Cupo e cattivissimo, con l’espressione arcigna e spietata del metallaro che trattiene le proprie vie urinarie? E invece vi dico che Kevin Sharp nell’indifferenza generale attendeva il suo turno ad un metro da me con l’espressione serafica del buon uomo in gita, cappello a tesa larga da coltivatore di canna da zucchero, barba patriarcale, ventre da cetaceo, giubbetto verde come i pantaloni larghi e sandali ai piedi. Nell’indifferenza generale, ho detto, perché nessuno lo riconosceva, tranne qualcuno che cercava sguardi d’intesa in giro per capire se era alle prese con un’allucinazione. Dan Lilker (Anthrax, Nuclear Assault, S.O.D.), lui sì, veniva continuamente fermato per foto e autografi rispondendo sempre con un sorriso disponibile.
Il Palarockness di Genzano pullulava di loschi figuri dall’espressione torva, con parecchie declinazioni possibili dello stereotipo del metallaro: il patito del trash, quello del black, quello del death, qualche crust, quasi tutti a fare i cattivoni in giro, eccetto forse quel tizio che sembrava il chitarrista dei Faith No More dimagrito, con occhiali meravigliosamente malausseniani e che sorrideva a chiunque mentre rollava in continuazione. Una mia amica incontrata per caso, abbigliamento rock-a-billy, piercing e righe orizzontali d’ordinanza, m’ha pure detto: “A Lore’, io e te semo gli unici normali qua!”
Bene, chiarita la situazione parliamo di musica, perché quello di Genzano era un evento pieno di giovani band ossequiose verso gli dei che cercavano di farsi notare e di scatenare un po’ di headbanging in giro, tra cover di Carcass ed At The Gates e pezzi originali in sintonia coi dettami dell’altra parte dell’Atlantico.
La prima vera sferzata l’hanno data i solidi Cripple Bastards con un set a base di grind, hardcore, oi e quant’altro, energici e trascinanti, molto più solidi di quanto fosse legittimo aspettarsi sulla base delle registrazioni.
Ma poi in fondo, non ce ne vogliano tutti gli altri, noi si era lì per i Brutal Truth. Ed eccoli salire sul palco un bel pezzo oltre l’una di notte. Sharp l’ho già descritto, solo che sul palco era anche scalzo, a conferma di un certo aspetto contadinesco, ed indossava solo una maglietta perfettamente bianca. Lilker immediatamente a petto nudo, Gurn in tenuta springsteeniana, Fender, maglietta chiara senza maniche e calvizie spietata, Rich Hoak dietro le pelli, riga a lato, barba incolta e occhiali nerd alla Weezer.
Insomma, non proprio l’aspetto di una band infernale…
Solo che poi è partita la carneficina.
E per più di un’ora non ce n’è stata per nessuno.
Una serie di ferraglie arrugginite scaraventate su carni vive e purulente, ossessioni urbane e psicopatiche. Un bisogno di controllo disperato e feroce, bordate inaudite sparate in faccia con determinazione, “Walking Corpse”, “I’ll Neglet”, “Choice of a New Generation”. Io appoggiato alla parete chiudendo spesso gli occhi per cercare un modo migliore per subire tutta quella violenza (mezzo, non fine, alla faccia di quei signorini nerovestiti). Un calderone brutale sul punto di deragliare e ribellarsi ai suoi stessi artefici, le smorfie più da vittima che da carnefice di Hoak nelle accelerazioni, mentre Sharp un minuto dopo l’altro assumeva sembianze sempre più cruente, via la maglietta, via il cappello, occhi di ghiaccio puntati sul pubblico rovesciando odio e rabbia. Dopo aver presentato un brano tratto da “This Comp Kills Fascists” mimava una mitraglia che se fosse stata carica avrebbe colpito più di un nazi-fascistoide nella calca (probabilmente ne era consapevole).
Un’esperienza, una delle forme più odiose e reali della musica tutta, un sacrificio catartico, pura devastazione bestiale.
“Hello, we’re Brutal Truth from NYC and THIS-IS-GRINDCORE!”
Capito?