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Gettiamo la spugna fin d’ora, tanto è inutile: scrivere del debutto di un qualsivoglia gruppo emergente senza scomodare gli stracitati anni Sessanta è diventato letteralmente impossibile, e fare i puntigliosi precisando di volta in volta parentele e figliolanze del caso è cosa tanto doverosa quanto noiosa. D’altra parte se l’indi-mercato chiama a gran voce un pop leggero ma non superficiale, fresco ma non ‘frescone’, per le nuove leve è praticamente d’obbligo un Grand Tour negli anni d’oro, quando la Motown sfornava meraviglie e “Pet Sounds” già impartiva inestimabili lezioni di sound.
Arrivati al loro terzo album, i Dr. Dog di Philadelphia non fanno eccezione e malgrado l’ispirazione ufficiale venga sì dai sessanta, ma del secolo prima (“Fate” si propone come una riedizione folk-rock de “La Forza del Destino” di Giuseppe Verdi) l’incedere della formazione ha impressa su di sè una data ben leggibile. E’ curioso, anzi, che un soggetto filo-shakespeariano di nuove generazioni contro le vecchie, di giovani in fuga dai valori corrotti di questa zozza società e via seguitando, si accompagni ad una musica così palesemente radicata nel passato. Il gioco può farsi tuttavia meno sciatto di quel che potrebbe sembrare se a propria disposizione si hanno un discreto senso per l’arrangiamento (i fiati di “Army of Ancient” stanno proprio al posto giusto) e un talento vocale cristallino come quello del vocalist Taxi, in grado di omaggiare senza ruffianerie ma con il giusto pathos il Lennon della Plastic Ono Band cui questo disco si avvicina più che ad ogni altra cosa.
E per l’ascoltatore che si augurasse se il loro classic rock ortodosso non sia una ragione di vita ma soltanto una piacevole ma temporanea vacanza nei tempi che furono, uno straccio di promessa lo si può strappare già dagli stessi testi: “let go for the old ones / we’ve got some new ones”, cantano in “the Old Days”. Noi attendiamo fiduciosi…