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Arezzo Wave non esiste più ma in compenso, e non è poco, rimane Arezzo. Con queste parole, rubate a Carmen Consoli in sede di conferenza stampa, ci togliamo subito il fastidioso e proverbiale sassolino dalla scarpa di un passato che non vuole passare (e forse un giorno tornerà) e iniziamo (finalmente) ad occuparci del presente e del suo necessario lavoro di ri-costruzione quotidiana. Ed è così che senza accorgersene il festival Play Arezzo giunge alla sua seconda edizione, assumendo una fisionomia più definita rispetto all’anno passato anche se ancora non del tutto esente da zone più “opache” che, si spera, vengano più chiaramente messe a fuoco nell’edizione prossima ventura.
24 luglio (giovedì)
Per problemi di tempo (una sovrapposizione con il ritorno dal live perugino dei R.E.M.) ci si perde imperdonabilmente l’esibizione della principessa incontrastata del folk Joan Baez (lunedì 21, nella suggestiva cornice di Piazza della Libertà) che, a detta dei presenti, regala un set molto intenso e toccante, impreziosito dalla riproposizione di un paio di pezzi d’antan a firma Gianni Morandi, oltre ad altri ripescaggi dal nutrito canzoniere-jukebox dei ’60 più nostalgici. Il giovedì si caratterizza per un programma non musicale e ad attirare subito l’attenzione è lo spettacolo “Fragments”, dello storico regista teatrale britannico Peter Brook, che viene presentato in doppia data nel sontuoso e storico teatro Petrarca (riaperto per l’occasione). Basato su quattro testi di Samuel Beckett e interpretato da uno splendido trio di attori (un italiano, Marcello Magni, una francese, Hylay Carmichael, e un palestinese, Khalifa Natour), l’allestimento mette in scena l’inquietante solitudine di un universo postumano in cui individui oscillanti tra disperazione paranoica e la più grottesca goffaggine mostrano tutta la propria debolezza e incapacità di attingere un senso delle cose ancora spendibile (irresistibile il terzo frammento, completamente muto, quasi chapliniano). Per concludere si fa un salto nel Cortile del Palazzo Comunale a dare una rapida occhiata allo spettacolo “Limiti” del gruppo Motus Danza, dedicato per l’appunto ai limiti delle risorse naturali e incentrato su un’efficacissima interazione tra immagini, suoni e danze astratte (a tratti splendidamente destrutturate), che ci rammenta delle straordinarie potenzialità espressive del corpo umano, femminile in particolare.
25 luglio (venerdì)
Per il sottoscritto arriva il giorno più ”caldo”. In serata è infatti atteso il live di Ben Harper e dei suoi Innocent Criminals. Prima però è prevista l’esibizione dei gruppi finalisti del contest per band emergenti toscane organizzato e promosso dal festival. Gruppi emergenti che il mercoledì precedente si erano già esibiti dal vivo nella rassegna “Covered!” , proponendo rielaborazioni personali di canzoni dedicate al tema del cielo (da “Lucy in The sky With Diamonds” fino a “Gli Uccelli” di Battiato) con l’aiuto e la consulenza del cantautore Paolo Benvegnù in sede di arrangiamento. Dopo gli Strawberry Overdrive, prendono la scena i Bludrama, i quali non fanno nemmeno in tempo a concludere il primo pezzo che subito dalla parte opposta del parco (a un passo dalla Fortezza Medicea) inizia il live di Xavier Rudd sul palco principale, con generosi volumi da grande raduno rock che tutto sovrastano e calpestano. Al di là delle responsabilità effettive della spiacevole circostanza e dell’identificazione di eventuali colpevoli per un simile incidente, la cosa dà comunque molto da pensare e riflettere: è possibile che a nessuno sia venuta in mente la brillante quanto semplicissima idea di far suonare i gruppi sul palco principale o quantomeno su uno stage più piccolo limitrofo ad esso, fornendo così anche un piacevole intrattenimento alle centinaia di fans che da più di un’ora stavano aspettando letteralmente a braccia conserte l’arrivo di Ben Harper mentre alle loro spalle, dalla parte opposta del parco, i giovani gruppi si esibivano davanti a otto persone? Ad ogni modo la frittata ormai è fatta e così ci si sposta nelle vicinanze del main stage per gustarsi il concerto di Xavier Rudd, geniale polistrumentista australiano, surfista illuminato e vera e propria rivelazione del festival, grazie ad un mix particolarmente felice di reggae, folk, blues e tribalismo aborigeno. Il buon Rudd oltre a cantare suona un po’ di tutto: percussioni, chitarre e un didgeridoo in versione tripla. Ad accompagnarlo nella vibrante tessitura di interminabili arazzi di maestria ritmica (tutta da ballare) soltanto (e non sempre) un batterista. Meglio soli che male accompagnati, insomma. Ma è ormai giunta l’ora di Ben Harper che sale sul palco insieme al suo plotone di criminali innocenti, nel tripudio esultante del numeroso e affezionatissimo pubblico. Harper propone uno show solidissimo e compatto, che spazia in tre lustri di onorata carriera rimbalzando da una “Diamonds On the Inside” cantata a squarciagola da una platea rapita fino a “Black Rain”, passando attraverso “Excume Me Mr.”e “Glory & Consequence”. Nella sua musica si riversano gli affluenti e le ramificazioni di tutto l’albero genealogico della musica americana e il concerto non fa che confermarlo: la purezza del blues del delta si intreccia con i candori soul di una Memphis incorrotta, il profetismo pacifista dei rastafariani incontra le utopie politiche della West Coast e il tutto si decanta nella voce fragile quanto feroce e nella gestualità da prete laico di un Ben Harper che esemplifica al meglio la potenza della contaminazione e del sincretismo culturale. Il picco qualitativo viene toccato forse nel bis, introdotto da una lunga improvvisazione solitaria alla steel guitar cui fanno seguito, in sequenza, “Lifeline”, “ Better Way” e “With My Own Two hands”, potentissime anche grazie alla perfetta e rodatissima stella a cinque vertici degli Innocent Criminals (impagabile l’elefantico bassista Juan Nelson).
26 Luglio (sabato)
È questo il giorno dei Subsonica. Per l’occasione si riesce a procacciare (un ringraziamento sentito a Paolo di Casasonica) una breve intervista telefonica con Max Casacci, assai gentile e disponibile. Max ci spiega l’importanza che nello show attualmente in giro per l’Italia rivestono gli effetti di luce e gli strabilianti accorgimenti visivo-scenografici (a base di neon e led in movimento), concepiti dal gruppo con l’aiuto del designer Mamo Bozzoli. Max specifica subito che il concerto è quasi totalmente alimentato da un impianto fotovoltaico e alla nostra domanda relativa al possibile smarrimento di una più diretta intimità con il pubblico nei concerti in grandi spazi, ci anticipa che in autunno il gruppo tornerà ad esibirsi nei club. In più sono già previste due date all’estero: il 4 agosto a Ibiza e l’8 ottobre a Londra ma per il momento non sono in cantiere progetti concepiti integralmente e specificamente per un mercato internazionale. Gli chiediamo poi cosa pensa dell’attuale fusione (si pensi al recente fenomeno “new rave”) di rock e dance e Max ci dice che la storia della musica è piena zeppa di corsi e ricorsi e per conto suo non si ritiene né un precursore nè un pioniere quanto piuttosto un figlio degli anni Novanta e del loro grande sogno improntato alla contaminazione e al meticciato di generi e culture musicali differenti, dall’elettronica al dub, passando per il reggae e il rock propriamente detto. Alla domanda circa il pericolo che la tecnologia (soprattutto in sede di produzione) non rischi alla fine di diventare un ostacolo uniformante, Max rimarca l’approccio ancora massicciamente “suonato” e strumentale che il gruppo adotta sia on stage che in studio. Finita la conversazione si va dunque al concerto dove altri gruppi esordienti (tra quelli visti ricordiamo Fudo Satellite, Globage e QuartaDeriva, vincitori del contest) suonano, sempre a causa dell’infelicissima intuizione dello sdoppiamento (con collocazione agli antipodi) di palchi, davanti a qualche sparuto amico o parente e agli altri musicisti che aspettano il proprio “turno”, compreso il gruppo di spalla degli stessi Subsonica, i No Conventional Sound, nella più tipica e frustante della situazioni (chi suona in un gruppo rigorosamente “non famoso” sa bene cosa intendo). Il concerto dei Subsonica invece chiarisce sin dalle primissime battute l’intento ultimo della band: far ballare la gente fino al completo sfinimento delle forze. Per chi (come il sottoscritto) ama ballare da solo (magari sbocconcellando vecchi vinili degli E.L.O.) forse non è l’habitat più naturale, ma il gruppo dimostra una padronanza assoluta della propria musica e una potenza di watt davvero soverchiante, resa ancora più ripida e imponente dal corredo di immagini luminose e proiezioni psichedeliche che la incorniciano da ogni parte. I momenti migliori sono forse quelli legati alle prime produzioni, come “Istantanee”, “Tutti I Miei Sbagli”, “Discolabirinto” o “Colpo Di Pistola”, ma la risposta del pubblico è a dir poco entusiastica per tutta la durata del concerto e piacciono molto anche la riproposizione della ballata “Coriandoli A Natale” o la rilettura di “Up Patriots To Arm” di Franco Battiato, nonché l’esecuzione al buio (indossando camicine fosforescenti) di “Ali Scure”, in segno di protesta contro le guerre “petrolifere” che tormentano il nostro tempo. “Nuvole rapide” non viene invece riproposta, sebbene esplicitamente richiesta dalle prime file, in quanto Boosta si è dimenticato le basi a casa (?!). “La tecnologia ci rema contro, ma non dobbiamo chiuderci ragazzi” chiosa il tastierista, del resto noi li avevamo messi in guardia. Segue un djset a base di cosiddetto “raggamuffin” (molto apprezzato dagli avventori del concerto) che vede coinvolto anche, tra gli altri, un euforico e schiamazzante Pau dei Negrita che nella foga dei saluti finali ha anche modo di incrinarsi una costola mettendo un malcapitato piede su un asse del palco male assicurata.
27 luglio (domenica)
Il festival giunge ormai al termine. Ci si reca così alla conferenza stampa di Carmen Consoli e Max Gazzè (un ringraziamento a Gloria Peruzzi e a tutto l’ufficio stampa) i quali discorrono un po’ della loro amicizia artistica e reciproca stima, ribadendo come il dialogo (anche tra chi ascolta e chi suona) sia alla base di ogni pratica musicale propriamente detta. Camen Consoli (che ha suonato buona parte delle chitarre acustiche ed elettriche nell’ultimo album di Gazzè) fa il parallelo con le comunità di scienziati che impostano il proprio lavoro di ricerca in maniera collettiva e dice che “l’arte è un gioco in cui non bisogna essere permalosi”, Max Gazzè le fa eco ricordando che “creare insieme è anche mangiare un piatto di pasta insieme” e che quando si trovano a lavorare nell’ambito di un progetto comune è come se fossero “due bambini in un parco giochi”. Per il resto si parla anche di look, di jetlag, di capelli da tagliare, di quella volta che Carmen fece la piastra a Max, di Max che forse un giorno sposerà (sebbene sia già sposato) Carmen e dell’importanza di essere superficiali. Prima del concerto ci si reca in Piazza San Francesco per sentire Vauro che presenta il suo romanzo “Kualid che non riusciva a sognare”, edito da Piemme e dedicato alla figura di un bambino afgano. Il buon Vauro non fa in tempo a ricordare che la verità di ogni guerra sono gli sguardi delle sue vittime che subito viene giù un acquazzone che porta alla sospensione del dibattito. Ci si perde così sia gli ultimi gruppi del contest (Sleeve, Venia e Vandemars tra gli altri) sia la band di apertura della serata, i multietnici Kultur Shock, sulla scia (a detta dei presenti) di Mano Negra e Gogol Bordello. Sale dunque sul palco Carmen Consoli, in compagnia della sua chitarra acustica, e subito si produce in una rilettura spoglia e disadorna quanto intensa nella sua pura essenzialità di vecchi classici come, tra gli altri, “Fiori di Arancio”, “Contessa Miseria”, “Geisha” e “Matilde Odiava I Gatti”. Subito dopo le dà il cambio on stage il buon Max Gazzè che toglie anch’esso un po’ di polvere dal suo repertorio “storico”: tra le tante basta ricordare “Cara Valentina”, “Una Musica Può Fare” (in versione accorciata), “Il solito sesso” e “Il Timido Ubriaco”. Nella parte finale dell’esibizione Carmen Consoli torna sul palco e insieme a Gazzè colleziona una piccola serie di bei duetti (“Parole Di Burro” e “Vento D’Estate” su tutti) concludendo lo show con una lunga (anzi: interminabile) coda strumentale durante la quale si passa da “La favola Di Adamo ed Eva” a frammenti di cover di Marley senza colpo ferire. Giunge così il momento, attesissimo dal pubblico, di Goran Bregovic e della sua orchestra per matrimoni e funerali. L’esibizione ripercorre nel complesso trent’anni di carriera tra tanghi, polke, colonne sonore di film famosi, musiche bandistiche a base di fiati a pieni polmoni e bellissime schegge di folklore slavo. Bregovic distribuisce banconote tra i suoi musicisti, scherza, tracanna (soprattutto tracanna) alla salute del pubblico, canticchia, strimpella la chitarra, mostra la differenza tra musica da matrimonio e musica da funerale e spiega che la sua orchestra è un po’ cara, soprattutto nei funerali, ma garantisce invece un netto risparmio per i matrimoni. Chiude l’esibizione, accompagnata da un risposta sempre molto affettuosa da parte del pubblico, “Kalashnikov” con il suo “all’attacco” iniziale. Stanchissimi si conclude il proprio assalto tra le morbide coltri di un letto, pensando a cosa scrivere e ad un’estate che si è già impercettibilmente lasciata alle spalle metà del proprio cammino.
Un ringraziamento a Federico e Gabriele Spadini.
(Francesco Giordani)