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Ogni disco, si dice, è come “un figlio” per l’artista che lo compone. Ma per la Bandabardò stavolta l’espressione è da intendersi proprio in senso letterale: “Ottavio”, titolo dell’ultimo album della simpatica banda fiorentina, è anche il nome del loro figlioccio, il protagonista di questo concept strutturato come un dramma teatrale dove i quattordici brani e i quattro atti ci raccontano la vita dell’antieroe Ottavio (che nella commedia dell’arte rappresenta la maschera dell’innamorato).
Quello che colpisce non è la storia, che è poi la storia di tutti, un semplice omaggio al normale affastellarsi della vita, ma l’approccio giocoso della Bandabardò nel raccontarcela, tramutando le canzoni in ballate da moderni aedi. Piuttosto: da moderni bardi.
L’ambientazione, ovviamente, non è quella di corte ma quella delle locande, con amici gli esclusi e le persone marginali; purtuttavia la Bandabardò non si perde nel rischio di buttare tutto in vacca e musicalmente va alla ricerca di soluzioni sonore particolari, come il raffinato gusto napoletano di “Bambino” (cover di “Guaglione” di Renato Carosone), la fisarmonica della languida “Timido Tango” e il tecnico piano di Stefano Bollani, ospite ne “La Vedova Begbick”. A noi il gruppo di Greppi piace di meno quando si lancia nelle classiche cavalcate country-folk da concerto (“Bambine Cattive”), anche se si sa che sono quelle che fanno la Banda uno dei gruppi italiani più amati dal vivo, e di più quando azzecca melodie pop eterne come in “Balla Ancora” o in “Lilou Si Sposa”, ma non è un assioma.
La cosa indubbia è che, nonostante la Bandabardò sia attiva da mò, per ora sembra davvero immune dal fisiologico declino di ogni gruppo, quello che per esempio ha assalito i Modena City Ramblers, persi nel riproporre loro stessi senza rimettersi minimamente in gioco.
Invece di grufolare sul divano come i classici quarantenni stanchi, la Banda si appresta a fare da papà ad “Ottavio” con la solita esuberanza: crescerà di certo allegro, curioso e sveglio.