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C’era una volta il downtempo. Ed è ancora fra noi, a quanto pare, nonostante sia legittimo sollevare qualche perplessità circa il suo effettivo stato di salute nell’anno duezerozerootto. Assai difficile, in fin dei conti, non essere scettici di fronte all’ultima release di un qualsiasi protagonista della cara vecchia scena della musica in bassa battuta. Non si tratta di essere prevenuti, sia chiaro. E’ che l’implacabile tapis roulant della musica elettronica scorre via che è un piacere, con richieste sempre più elevate di energia e ossigeno, imponendo un passo e un’andatura addirittura proibitivi per chiunque si attardi a balbettare il proprio processo di rigenerazione artistica. Ci vuole un fisico bestiale, insomma.
George Evelyn – tanto per non equivocare – è da considerare un peso massimo di tutto riguardo, a questo proposito, con un curriculum che, dalle prime incisioni warp più house-oriented fino all’approdo trip-hop di metà ’90 e oltre, lo colloca di diritto fra i classici del genere se non altro per le delizie contenute in “Smoker’s Delight”, suo apice creativo del ’95.
Va bene, d’accordo, a questo punto c’è un “però” e l’avrete senz’altro intuito. Il fatto è che il nuovo Nightmares on Wax sembra mostrare decisamente la corda tradendo al tempo stesso una sostanziale mancanza d’ispirazione, tanto che il solo parlarne rischierebbe di trascinare con sé le solite rifritte considerazioni sui clichè, sulle soluzioni stereotipate, sull’inutilità della sterile ripetizione di se stessi e bla e bla e bla.
Ecco, “Thought So…” è un disco piacevole: questo è il problema. Un disco così gradevole e carino da risultare quasi innocuo ed insapore, come un mezzo bicchiere d’acqua tiepida e sgasata mandato giù tutto d’un fiato. Un gusto che talvolta i nostri attenti ricettori fanno fatica persino a percepire. Gli ingredienti peraltro sono quelli della casa, dosati e selezionati con la consueta maestria: si passa dal funky-groove di “Be There” e “Da Feelin” al dance hall dubbato di “195lbs”, dal languido r’n’b in wah-wah di “Moretime” al vano tentativo operato con “Bringin it”. La poltrona è comodissima, non c’è che dire, ma il pericolo che si corre è quello di sprofondare beati in un memorabile pisolino, impigriti e sonnacchiosi come un micione dopo i pasti.
Certo – penso – non può che giocare a sfavore l’aver ascoltato il disco durante questi primi accenni d’autunno, coi lunghi pomeriggi soleggiati che pian piano si rattrappiscono a ricordarci che i giorni più belli sono ormai irrimediabilmente passati. Sì perché, concepiti da Evelyn durante il viaggio dalla natia Leeds verso le Baleari, sono pezzi che suonerebbero assai meglio in qualche calda spiaggia ibizenca visto che dalle nostre parti, con la via già ricoperta di giallo fogliame, è tutta un’altra storia e tanti saluti alle good vibrations. “Still? Yes!”, per dire, aggiunge poco o niente a quanto potremmo sentire in un Morcheeba qualsiasi ed è un vero peccato che sul tutto aleggi una velata sensazione di deja-vu pur riconoscendo qua e là la presenza di episodi più riusciti tipo l’easy-lounge di “Hey Ego!” o l’indolente e looppata “Pretty Dark”.
C’era una volta, si diceva; come nello incipit di ogni fiaba che si rispetti.
Col sospetto, stavolta, che il lupo cattivo si sia fatto una bella scorpacciata finendo col mangiarsi anche il tradizionale lieto fine.