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Ultimamente questi live in cui determinati artisti ripropongono per intero il loro classico discografico sembrano andare molto. L’ATP si è resa famosa per le sue Don’t look back series, impagabili esibizioni in cui arrivi sul posto con un sorriso da ebete perché sei ben consapevole che i Sonic Youth ti suoneranno tutto “Daydream Nation”, che gli Slint ripescheranno dal soffitto uno “Spiderland” impolverato quanto emozionante o che i Mogwai eseguiranno per intero “Young Team”. Niente fattore sorpresa, ma un’unica lunga emozione fino al bis e lo stesso sorriso da ebete che ti riaccompagna fino a casa e al risveglio del giorno dopo. Quest’anno tocca ai Built To Spill e al loro “Perfect From Now On”, una delle ultime gemme del decennio scorso. Era il 1997, “Ok Computer” e “Portishead” sembravano aver dato il colpo finale al rock. Non al post-rock, etichetta in ascesa che sembrava sancire la fine di un’agonia durata mezzo decennio, ma al rock inquanto tale. Quello con una, due o tre chitarre, un basso, una batteria e, all’occorrenza, qualche strumento di derivazione orchestrale e sporadici inserti di musica sintetizzata. Il disco in questione si inseriva nel filone post ma con una chiara visceralità rock, un’incredibile ponte tra Neil Young e Pavement per otto canzoni perfette in una discografia mai veramente sottotono. Il classico capolavoro al terzo tentativo.
Prima di azionare il sorriso ebete in questa ultima tappa del mini-tour svedese, tocca al quintetto di supporto del tour europeo riscaldare la platea. Tali Disco Doom che – non si direbbe – vengono da una delle terre più avare di vibrazioni di questo tipo, la Svizzera. Impresa ardua, per la nota freddezza scandinava, non tanto per la loro proposta musicale. Affine e in parte figlia della scuola-Built To Spill ma con meno scossoni emotivi. Atmosfere più uniformi, saturazione del suono come scelta di vita e una certa compiaciuta attitudine per chitarroni drone. Flebili voci nascoste da buoni tappeti di distorsioni che non sconfinano mai nello shoegaze vero e proprio. Un po’ come se gli Psychic Ills fossero venuti fuori da Basilea piuttosto che da Brooklyn. Esibizione lunga per un supporto ma il pubblico ascolta, apprezza, non si spazientisce. Freddo ma educato, fatta eccezione per un paio di irriducibili danesi che entrano mascherati e in pochi minuti vengono rispediti fuori senza preavvisi.
In perfetto orario, nonostante l’intimo Kulturbolaget sia tutt’altro che gremito, i cinque protagonisti, dopo aver allestito umilmente il palco senza tecnici e aiutanti, improvvisano un soundcheck che si trasforma nell’introduzione di “Randy Described Eternity”. Come se nulla fosse, lo spettacolo è iniziato. Timido applauso, solita abitudine svedese di seguire il concerto a distanza tutt’altro che ravvicinata, con la sindrome da prima fila sempre e comunque scongiurata. In fondo ai più darebbero l’ìdea di essere nient’altro che cinque poveri sfigati dell’Idaho. Quando però nel crescendo innescato dagli arpeggi introduttivi si inserisce la voce di Doug Martsch, strozzata in gola e sofferta, si è risucchiati in un turbine di emozioni che senza cadute di tono resterà in piedi per un’ora o poco più. “I Would Hurt A Fly” ha quel desolante romanticismo accentuato dallo straziante violoncello che taglia i perfetti intrecci chitarristici per poi fare da padrone in quel cambio di tempo inspiegabile quanto efficace che spinge la canzone nell’annebbiante finale più rock che post. Distorto, malato, straniante. Ma la componente post riprende subito il sopravvento. Nell’accezione di post-rock nel suggestivo preludio strumentale fatto di ipnotici giri ancora tagliati dal crepuscolare violoncello. Nell’accezione di post-core nella tempestosa sferzata che fa scivolare “Stop The Show” nell’irresistibile cazzeggio da Pavement invecchiati. In “Made Up Dreams” Neil Young aleggia più che mai, l’intensità espressa dai cinque è di un impatto quasi insostenibile con quelle chitarre narrative e l’angosciante timbro di Martsch che sembra cantare con lo stomaco.
Difficile convincersi del fatto che sia tutto così live. Ogni passaggio è suonato al millimetro, l’equilibrio tra i suoni mai imperfetto. Se non ci pensasse una dei danesi prematuramente espulsi, clamorosamente tornata in scena con la sua maschera a metà strada tra un cetriolo e un uovo di pasqua, a dare un tocco di imprevedibilità alla serata. Così, dopo vari inviti più o meno insistiti, il malcapitato chitarrista è costretto a ridicolizzarsi suonando per tutti i quindici minuti di “Velvet Waltz” soffocato dall’inconsueto souvenir di Christiania, la comunità hippie di Copenhagen cui dedicherà il pezzo. Dopo un’ esecuzione epica e avvolgente del quinto brano in scaletta, i ritmi tornano spigolosi e frenetici nella vertiginosa fuga di “Out Sight” che apre nuovamente la strada alla Pavement, ovvero come suonare freschi e giovani senza dimenticarsi di suonare bene. Ma sono sempre le emozioni a prevalere al di là degli equilibri sonori. Un pathos difficile da tradurre in parole per una “Kicked In The Sun” che toglie semplicemente il fiato. O forse letteralmente, viste le reazioni tiepide. Sarà forse il timore per l’inflessibile security visto che anch’io temendo conseguenze non rispondo a dovere alla solita scatenata che entrata nella parte di Black Mamba mi sfida a duello con spinte e pugni intimidatori. Come previsto, al primo pretesto utile – bottiglione alcolico nascosto nello zaino – i tre intransigenti sono nuovamente sbattuti fuori, durante l’ultima cavalcata dell’album. Scene da concerto rock, finalmente. Peccato però che il resto del pubblico abbia scambiato la venue alternative più rinomata della Svezia meridionale per un teatro. Meglio, per ciò a cui siamo spesso abituati in Italia. Il batterista Scott Plouf, però, di gran lunga il più istrionico e ubriaco dei cinque, si prende gioco della platea esortandola a muoversi almeno nelle pause tra i pezzi. Così, prendendo alla lettera il suo invito o forse il titolo dell’album, sembra che tutti intraprendano la via dell’automiglioramento scatenandosi nella trascinante esecuzione di “Going Against Your Mind” dall’ultimo “You In Riverse” che si lega senza interruzione nel suo incedere da Neil Young versione post-punk a “Untrustable part.2”. Io prendo il titolo per un paradosso poiché i due classici tra Modest Mouse e anthem-rock a stelle e strisce che arrivano dopo la sosta non possono essere all’altezza di una delle pietre miliari più sottovalutate degli anni 90. Accolte da un boato e accompagnate in coro verso dopo verso, arrivano infatti “Car” da “There’s Nothing Wrong With Love” e “You Were Right” da “Like A Secret”. Coinvolgenti, ma niente di più.
Solita controindicazione nel ritorno alla normalità dopo l’esecuzione di uno dei capolavori proposti dalle Don’t look back series. Chiedere all’ATP di stilare la scaletta dei bis sarebbe troppo. O più semplicemente per gli svedesi anche “Perfect From Now On” è pura normalità? Nel dubbio, sorriso ebete e a casa.
1. Randy Described Eternity
2. I Would Hurt A Fly
3. Stop The Show
4. Made-Up Dreams
5. Velvet Waltz
6. Out Of Site
7. Kicked It In The Sun
8. Untrustable/Part 2 (About Someone Else)
9. Going Against Your Mind
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10. Car
11. You Were Right