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Operazione perfettamente riuscita. Non un semplice album di cover, ma, come giustamente ci fa notare Duncan Heining, “una rappresentazione di cosa sarebbe saltato fuori dall’incontro dei due gruppi britannici”. Nato nel 1984 il Delta Saxophone Quartet (formazione in residenza alla Kingston University di Londra) si era sinora sempre mosso nell’ambito della musica minimalista e del jazz sperimentale, dedicandosi a compositori come Steve Reich, Philip Glass o Terry Riley.
Il recente mutamento d’organico, che ha portato Tim Holmes (sax tenore) e Graeme Blevins (sax soprano) ad unirsi a Chris Caldwell (sax baritono) e Pete Whyman (sax contralto), ha spinto il gruppo ad affrontare una strada un po’ diversa, nuova sì, ma assolutamente coerente con la sua vocazione. In fondo anche i Soft Machine possedevano un’anima minimalista, fin dai primi due album: uno scoppiettìo di giochetti ritmici, filastrocche non-sense, vocalizzi dadaisti e deliziose invenzioni melodiche: quella musica che non ti colpisce al primo ascolto, ma si insinua nella mente con un processo lento e graduale, conquistandola a poco a poco, per non lasciarla mai più.
Poi arrivò la sterzata jazz-rock strumentale di “Third”, album importante ma di difficile ascolto, per tre quarti serioso ma splendidamente incoerente nel brillare solitario di quella gemma di purezza eterea che è “Moon In June” di Robert Wyatt, tardivo vertice dei Soft prima maniera, quelli “patafisici” e imprevedibili, leggeri come l’aria. Di lì in poi sarà jazz-rock e basta, puro e semplice, elegante e rigoroso, ben scritto ma generalmente molto meno emozionante e più prevedibile. Ebbene, tutta questa storia musicale la trovate armonizzata in questo disco, un piccolo capolavoro di equilibrio artistico che non celebra il passato, lo vivifica, non lo ripropone, lo reinterpreta. Un’opera che suona sostanzialmente nuova, dai pezzi più antichi di marca wyattiana a quelli firmati da Carl Jenkins (subentrato ad Elton Dean nel 1972), arrangiati da musicisti diversi in modo sobrio ed essenziale, che senza snaturarne l’anima ne valorizzano sia il versante più melodico e “popolare”, sia quello più colto e d’avanguardia.
L’esplorazione di una terra di confine, quella dei Soft Machine, che il quartetto effettua con uno stile classico talvolta più efficace dell’originale, si apre subito all’insegna di Hugh Hopper – presenza dominante lungo tutti i sessanta minuti – con una improvvisazione sul tema del brano che dà il titolo al disco, e si prosegue con un grande classico come “Facelift”, concentrata in otto minuti e mezzo, asciutta e compatta, depurata di tutti gli orpelli. Certo la presenza massiccia dei fiati anche nella versione incisa in “Third” rendono il compito relativamente semplice ai Delta: tuttavia, complice il suono live non proprio impeccabile dell’originale, un po’ distante e appannato, l’arrangiamento acustico (“truccato”, dal momento che il medesimo Hopper accompagna al basso…) risulta persino più incisivo. Colpisce favorevolmente il recupero di due pezzi come “Mousetrap” e “Noisette”, direttamente dalle Peel Sessions (pubblicate nel 1991), “Everything Is You” conquista con la sua melodia perfetta incastonata in una struttura minimale.
Si fa apprezzare persino un’operazione azzardata e rischiosa come “Outrageous Moon”, non un semplice medley, ma qualcosa di nuovo nato dalla fusione di due colossi come “Moon In June” e “Out-Bloody-Rageous”, stilisticamente molto diversi nonostante l’appartenenza al medesimo album, accordati grazie al canto di Morgan Fisher, che risuona in sottofondo con la cadenza di una formula magica. Sorprende la valorizzazione del “periodo Jenkins”, con tre pezzi fra i quali spicca la serenità pastorale di “Aubade”.
Un gioiellino di sublimazione, in definitiva, apprezzabile anche da chi, della band di Canterbury, non abbia la minima contezza.