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«I have a feeling that everything will work out next time». Con questa frase in testa, una versione più intima e di 15 anni dopo i was dressed for success, but success it never comes, cammino verso il Locomotiv di Bologna, mentre nemmeno i portici mi riparano dall’aria tagliente in un martedì sera troppo buio.
La frase appartiene a “Wages of sleep”, una delle canzoni più belle dell’ultimo disco dei New Year, ed è proprio loro che mi accenno ad intervistare.
Nemmeno una domanda preparata: avevo già letto dei loro silenzi in occasioni simili, della loro ferma determinazione a non raccontare molto della loro musica così magica, e particolare.
Decido di improvvisare.
E funziona.
I fratelli Matt e Bubba Kadane sono persone gentili. Fin troppo educate: hanno lo stesso aplomb di quando Stephen Malkmus (perché oggi tornano sempre in mente i Pavement?) mi raccontò che qualcuno gli aveva appena rubato tutti gli strumenti. “That’s how it goes”, mi disse, e poi si mise ad ascoltare le mie domande.
Matt è un professore di storia, di quelli per i quali le prime file delle aule si affollano di ragazze e ragazzi un po’ troppo interessati. Bubba, invece, è più silenzioso, parla piano, quasi bisbigliando a quella barba lunga.
Ed è impossibile non pensare, ascoltandoli parlare e intervenire l’uno nelle frasi dell’altro con un’armonia perfetta, che sappiano fare nella vita reale ciò che fanno, alla perfezione, nelle loro canzoni: completarsi.
(inutile indicare chi risponde e dove. Tutto si mischia, diventa una voce unica)
Di solito, dopo che una band è in tour da tanti giorni, spuntano diversi aneddoti divertenti da raccontare. Cosa sta succedendo in questo tour?
Uhm…dunque. Dipende dalle volte. O il concerto va bene e l’albergo è terribile, oppure l’alloggio è fantastico, ma il concerto è uno schifo. A Cleveland, suonavamo assieme ai Minus The Bear, ma…diciamo che il loro pubblico non ci gradiva molto, ecco. Oppure, come si chiamava quel posto? Il “Living Room” a Providence: era il posto meno ospitale, meno living room, al quale potessimo pensare. Non saremmo rimasti lì un minuto di più…
E in Europa, invece? Mancavate da moltissimi anni…
Beh, abbiamo partecipato a un festival davvero splendido in Spagna, il Tanned Tin. E in Italia mancavamo addirittura dal 2002, è bellissimo tornare qui.
Ve lo avranno chiesto in molti, ma il disco nuovo, omonimo, è il primo che non comprende il concetto di “fine” nel titolo. Come mai?
A dire la verità abbiamo cercato a lungo un titolo con “end”, ma alla fine non lo abbiamo trovato. Non riuscivamo ad esprimere tutto con un titolo, e allora abbiamo deciso di abbandonare le vecchie soluzioni e di usare solo il nostro nome. In effetti, il disco non ha proprio un titolo.
Tornando al vostro passato musicale, ancora prima dei Bedhead: vi ricordate come avete iniziato a suonare?
(Matt) Io ho iniziato a 9 anni col pianoforte, ma ho smesso molto presto di andare a lezione. C’era questa insegnante orribile, che mi spezzava matite sulle nocche ogni volta che sbagliavo…era terribile!
E’ per questo quindi che hai ricominciato a suonarlo solo a distanza di molti anni, nel disco nuovo?
(ride) Esatto, Chris Brokaw (che suona la batteria nella loro formazione dal vivo, NdR) ha ricominciato a rompere matite…
(Bubba) Io invece ho iniziato più tardi, a 15 anni al liceo, prendendo lezioni di chitarra.
(Matt) Lo facevamo insieme, ma anche in quel caso ho smesso molto presto: ricordo che eravamo entrambi in una stanza piccolissima, l’insegnante puzzava in maniera tremenda! (ride) Credo di aver smesso di andare a lezione perché non sopportavo la sua puzza. Ecco perché Bubba ora è un chitarrista molto più bravo di me…
E la vostra prima canzone, invece?
(Bubba) Oh, abbiamo iniziato prestissimo. Sarà stato il 1979, me la ricordo ancora: la linea di chitarra era praticamente identica a quella di “Hold the line” dei Toto! (ride). Fortunatamente, da allora abbiamo cambiato gusti. E da lì è stata tutta una discesa: una volta imparato a suonare “More than a feeling”, sai suonare anche “Sweet home Alabama”, e quindi sai già suonare tutto! (ride)
Immagino che tutti vi chiedano che musica ascoltiate e cosa vi piaccia.
Sì…(segue smorfia molto eloquente, NdR)
Quindi non ve lo chiederò. Mi interessa però sapere che libri leggete: i vostri testi sono davvero belli, e curati, e sono curioso di sapere che letture ci siano alle spalle.
(Matt) Io leggo soprattutto libri di storia, cose che leggo sì per piacere, ma soprattutto per lavoro. Voglio dire, non mi viene in mente spesso di prendere un libro e leggerlo. L’ultimo che mi ricordo di aver letto era “Il profumo” di Patrick Süskind, ma non credo nemmeno di averlo finito. Mi sono accorto che era molto bello, ma subito dopo l’ho abbandonato per leggere, di nuovo, di storia…
(Bubba) Anche per me è lo stesso, non sono un lettore avido. Leggo molto di politica, e i quotidiani, soprattutto. Nell’ultimo periodo, negli Usa, non potevi davvero evitarlo, se ne parlava ovunque…
Mi state anticipando la prossima domanda: eravate ancora negli Usa quando sono arrivati i risultati delle elezioni? E come la pensate?
Il tour partiva proprio il giorno dopo, a mezzogiorno. Abbiamo fatto la notte in piedi per seguire i risultati…ed è stata una cosa veramente gioiosa, bellissima. Erano tutti estasiati, a New York, c’era esattamente il feeling opposto all’11 settembre.
Qualche giorno fa ho visto il nuovo progetto di Laurie Anderson, “Homeland”, dove lei diceva: «Per due anni, in America, non abbiamo fatto altro che parlare di futuro. Bene, il futuro è qui. Ma ora è il panico, perché nessuno sa cosa succederà».
Certo, passata l’euforia, ora sarà difficile: con la crisi economica in atto, Obama o no, ci metteremo un decennio a risanarci. La gente è felicissima, ci saranno benefici sociali indubbi grazie a tutta questa carica positiva, ma se niente migliora, è facile immaginare che non duri.
Da queste considerazioni, partono cinque minuti buoni di scambio intensissimo tra i due fratelli. Considerazioni politiche attente, niente affatto banali: paralleli tra Bush e Nixon, Carter e Obama («se la crisi continuasse, Obama diventerebbe come Carter il primo presidente democratico da molto tempo a rimanere in carica per un solo mandato»), riflessioni sulle responsabilità democratiche nella crisi («Molta gente si è fatta ingannare dall’avere un presidente repubblicano, ma i democratici controllano il Congresso dal 2006») e giudizi positivi sul neo-presidente («Obama non scontenta nemmeno molti repubblicani, sembra abile e capace»).
Cinque minuti fiume, nei quali sarei potuto sgusciare fuori dalla stanza senza che i fratelli se ne accorgessero. Interromperli è scortese, ma necessario.
Certo che sembrate molto più a vostro agio nel parlare di politica, piuttosto che di musica…
Sì, in effetti è vero. Ma sai, è difficile parlare di musica. Voglio dire, tutto quello che devi sapere è quello che ascolti. Noi frequentiamo altri musicisti, ma non è per fare parte di una scena: quando ci incontriamo tra di noi, parliamo di musica solo per raccontarci i posti dove abbiamo suonato, o consigliarci un disco da ascoltare. E poi, tranquillamente, parliamo d’altro.